Con la cura di spazi verdi e il riuso di aree abbandonate anche i cittadini attivi possono collaborare per prevenire il consumo di suolo.

“Troppo pochi sanno che il nostro futuro dipende dallo strato sottile che si estende sotto i nostri piedi. Il suolo e la moltitudine di organismi che in esso vivono ci forniscono cibo, biomassa, fibre e materie prime, regolano i cicli dell’acqua, del carbonio e dei nutrienti e rendono possibile la vita sulla terra. Occorrono migliaia di anni per produrre pochi centimetri di questo tappeto magico.”
È con queste parole che la Commissione Europea introduce la Strategia dell’UE per il suolo per il 2030, e cioè il documento di indirizzo politico che pone le istituzioni dell’Unione di fronte ad ambiziosi obiettivi, tra i quali emerge, senza dubbio, quello del consumo di suolo netto pari a zero entro il 2050.
L’obiettivo risulta particolarmente ambizioso se si considera la situazione attuale. Stando al rapporto sul consumo di suolo in Italia del 2023, prodotto dal Sistema Nazionale per la Protezione Ambientale (SNPA) in collaborazione con l’Istituto Superiore per la Ricerca e la Protezione Ambientale (ISPRA) l’impermeabilizzazione del suolo non solo da due anni non sta rallentando, ma anzi, è in crescita. Il ritmo di consumo è quello di 2.5 metri al secondo, quantità che nel nostro paese non si vedevano da almeno 10 anni. Per avere un’idea dei numeri di cui stiamo parlando solo nel 2022 sono stati consumati 77 km quadrati di suolo, circa la metà della superficie di Milano.

L’impatto ambientale del consumo di suolo.

Si tratta certamente di una velocità insostenibile dato il grave impatto che il consumo di suolo ha a livello ambientale. Non è un caso se la Corte Costituzionale ha definito il consumo di suolo “una delle variabili più gravi del problema della pressione antropica sulle risorse naturali”. Ogni centimetro di suolo impermeabilizzato comporta, infatti, una perdita in termini dei preziosi servizi ecosistemici svolti dal suolo elencati sopra, senza i quali la stessa vita sulla terra non sarebbe permessa. La rimozione di suolo naturale e l’aumento di aree impermeabilizzate, insieme alla rimozione di alberi, ha anche un effetto sulla temperatura delle zone urbane. In particolare, la cementificazione crea le cosiddette “isole di calore”, spazi urbani in cui la temperatura si alza a causa dell’asfalto.
Un’ulteriore conseguenza, la cui gravità è, purtroppo, immediatamente percepibile, è l’aumento dell’esposizione a rischi di natura geologica come frane e alluvioni. Il motivo, lo spiega con chiarezza il professor Mugnozza, presidente della Commissione nazionale per la previsione e prevenzione dei grandi rischi dal 2017 al 2023, è che “quando si rende il suolo impermeabile, tutta l’acqua caduta in quelle nuove aree sottratte al suolo naturale dovrà defluire per infiltrarsi nel suolo naturale e lo farà con maggiore velocità e con maggiore intensità. Ci saranno maggiori volumi di acqua che confluiranno in volumi ridotti. Il consumo di suolo, quindi, rende quelli che chiamiamo processi di deflusso superficiale – run off in inglese – maggiori e più elevati. Perciò le portate dei fiumi aumentano, di conseguenza ci sono maggiori probabilità che questi esondino e con anche maggior impatto dell’acqua sui versanti, con il rischio che provochino frane. È un nesso di causa ed effetto ormai ben noto.”

Il ruolo dell’amministrazione condivisa: suolo bene comune.

Il suolo naturale è dunque un bene prezioso, non rinnovabile e insostituibile. In altre parole, il suolo è un bene comune, e come tale deve essere tutelato, al pari delle acque e delle arie. Seppure la definizione di suolo come bene comune sia effettivamente, da qualche anno, comparsa nella maggior parte delle legislazioni regionali, questa non è stata accompagnata da adeguate azioni concrete, come dimostrato dai preoccupanti dati riportati poco sopra. A riempire di senso la definizione di suolo come bene comune sembrerebbero essere state piuttosto le innumerevoli storie di comunità locali che, in tutta Italia, hanno scelto di proteggere e prendersi cura di un pezzetto di suolo, dal parco all’aiuola, dal giardino alla foresta spontanea nata tra i resti di un ex fabbrica abbandonata, come il caso del patto di collaborazione per la “Goccia” di Milano.
Riattivare una comunità attorno ad una zona verde poco utilizzata è già, infatti, un’imprescindibile forma di prevenzione del consumo di suolo, perché dona visibilità al luogo e lo rende conosciuto, salvandolo dal diventare facile preda di operazioni edilizie. Non solo, le iniziative dei cittadini attivi di questo tipo sono preziose perché sensibilizzano al tema, rendendo i benefici e il valore del suolo naturale nella vita di ognuno di noi un concetto alla portata di tutti. Si pensi per esempio alle innumerevoli esperienze degli orti di comunità, solidali, didattici e terapeutici, comparsi negli ultimi anni negli interstizi urbani, nei condomini collaborativi, sui tetti degli edifici in riuso, o nelle aree agricole abbandonate, come i seimila metri quadrati recuperati grazie al patto del Brolo di sant’Anna, a Brescia, dove con l’aiuto di oltre 50 volontari e 20 soggetti partner si raccolgono circa 2 tonnellate di ortaggi ogni anno.

Consumo di suolo e recupero delle aree abbandonate: luci e ombre.

Ma è certamente tutela del suolo naturale anche il riuso circolare del suolo già impermeabilizzato.  Non è un caso se in quasi tutti i testi normativi in cui compare la prevenzione del consumo di suolo, comprese le leggi regionali citate sopra, questa sia sempre accompagnata da concetti quali la rigenerazione urbana, il recupero o il riuso delle aree abbandonate. Il legame è chiaro: restituendo alla comunità un bene privato o pubblico abbandonato si evita che nuovo suolo venga consumato per realizzare quelle stesse attività sociali. Questo legame però rischia di venire meno nella realizzazione pratica di molti di questi progetti. Come prova di ciò si pensi che una delle più diffuse premialità previste per chi sceglie di investire nell’abbandonato sono proprio i diritti edificatori in aree vergini, e cioè la possibilità di costruire lì dove il suolo non è ancora stato impermeabilizzato. Non solo, come evidenziato anche dal rapporto sul consumo di suolo di cui sopra, “molte leggi regionali, pur avendo tra le finalità o tra i principi ispiratori il contenimento del consumo di suolo, non considerano come consumo di suolo quello effettuato all’interno di perimetri di aree urbanizzate o su suoli destinati all’urbanizzazione, seppure allo stato ancora liberi. Questo tipo di classificazione, divergente da quella ormai consolidata e ufficiale a livello europeo, finisce per incentivare l’ulteriore impermeabilizzazione mascherata, per di più, da riuso di aree già “occupate”.
Un discorso diverso deve essere fatto per i processi rigenerativi attivati dal basso, dove il riuso circolare del suolo impermeabilizzato, e quindi la prevenzione del consumo di suolo naturale, è il risultato della spontanea attivazione della comunità locale. In questo caso, infatti, non c’è il rischio che il processo sia accompagnato da nuovo consumo di suolo, né in loco a causa di dubbi definitori né tantomeno altrove a causa di premialità edificatorie.  La prevenzione del consumo di suolo è dunque autentica.
Per questo motivo, le esperienze di amministrazione condivisa sono spesso più valide dei grandi progetti di macro-rigenerazione, non solo dal punto di vista ambientale ma anche da quello sociale. In quanto frutto del genuino innesto della comunità di riferimento, queste esperienze sono infatti in stretta connessione con il contesto territoriale, traducendosi per questo in un valore inestimabile. Tra i tanti casi di recupero di aree abbandonate o poco utilizzate che si potrebbero richiamare, un esempio particolarmente indicativo è quello di Beeozanam: un ex complesso industriale in via Foligno a Torino trasformato in uno spazio per la comunità “un luogo aperto, in cui convivono e si sostengono attività socio-culturali, formative e produttive”, come viene indicato nel testo del patto di collaborazione.
In sintesi, le azioni dal basso, che queste siano di cura condivisa di spazi verdi o di riuso di aree impermeabilizzate abbandonate, riescono tanto a sensibilizzare l’opinione pubblica sul valore del suolo come bene comune quanto a contrastare e prevenire il nuovo consumo di suolo naturale. Questo tipo di esperienze promuovono un modello di collaborazione civica la cui implementazione risulta necessaria per una sfida tanto complessa come quella della prevenzione del consumo di suolo. La tutela del suolo, infatti, così come quella di ogni altro bene ambientale, è a vocazione comunitaria e deve necessariamente avvenire attraverso il superamento della tradizionale contrapposizione tra interessi pubblici e privati, a favore di un modello di sinergia tra l’impegno delle istituzioni e delle comunità locali.

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Foto di copertina: Comitato per la difesa del parco Don Bosco a Bologna, salvato dalla cementificazione grazie ad una mobilitazione di quartiere (foto condivisa da Anna Maria Providenti).