Organizzazioni non profit e concorrenza in ambito comunitario

Le organizzazioni non profit sono generalmente obbligate a rispettare le regole di concorrenza, ma questo apre nuovi problemi sul piano interno
1. Premessa

A seguito della consultazione avviata con la Comunicazione del 26 sui servizi sociali di interesse generale (COM(26) 177 del 26 aprile 26), la Commissione europea ha raccolto numerosi quesiti relativi all’applicazione a tali servizi delle regole comunitarie sugli appalti pubblici. Per rispondere a questi quesiti, i servizi della Commissione hanno redatto uno “Staff Working Paper” che risulta allegato alla Comunicazione del 27 su “I servizi di interesse generale, compresi i servizi sociali di interesse generale: un nuovo impegno europeo” (2 novembre 27, COM(27) 725 def): tale allegato è denominato appunto “Frequently asked questions concerning the application of public procurement rules to social services of general interest” (SEC(27) 1516, provisional version); un analogo allegato alla Comunicazione ha invece ad oggetto gli aiuti di Stato.
Nell’allegato sui servizi sociali, non disponibile in lingua italiana, vengono affrontati molti temi, con un approccio prettamente casistico: per quel che interessa in questa sede, le risposte ad alcuni quesiti riguardano specificamente le organizzazioni non profit. Sebbene nella premessa al documento si chiarisca che il “documento non è vincolante per la Commissione europea come istituzione”, è però innegabile che esso costituirà per gli interpreti un punto di riferimento molto importante nella risoluzione di alcune delicate questioni giuridiche.

2. Le gare ‘riservate’

Nella risposta ad un quesito riguardante espressamente le organizzazioni non profit (“Is it allowed to limit the selection only to non-profit service providers?”), il documento della Commissione chiarisce se ed in quale misura è possibile riservare la partecipazione alle gare per l’affidamento dei servizi sociali alle organizzazioni non profit.
L’implicito presupposto sul quale viene fondata la risposta è che, salve alcune eccezioni, i servizi sociali costituiscono attività economiche ed i prestatori ̽quale che sia il loro status giuridico̽ sono qualficabili come imprese alla stregua del diritto comunitario: il testo della Comunicazione del 27 risulta molto chiaro in tal senso, poiché vi si afferma che “affinché un determinato servizio si configuri come attività economica ai sensi delle regole del mercato interno (libera circolazione dei servizi e libertà di stabilimento), deve possedere la caratteristica essenziale di essere fornito dietro retribuzione”; tuttavia, “non occorre necessariamente che il servizio sia pagato dai beneficiari” ed “il carattere economico di un servizio non dipende dallo status giuridico del prestatore (ad esempio un ente non a scopo di lucro) né dalla natura del servizio, bensì delle effettive modalità di prestazione, organizzazione e finanziamento di una determinata attività”[1].
Anche la coeva giurisprudenza della Giurisprudenza della Corte di giustizia è pervenuta ad una conclusione del tutto simile (cfr. Corte giust 29 novembre 27, C-119/6); si tratta di una conclusione preventivabile anche in base alla specifica Comunicazione della Commissione sui servizi sociali del 26, secondo la quale i servizi sociali ̽esattamente come i servizi di interesse generale (di cui fanno parte)̽ hanno carattere economico e in linea di principio soggiacciono perciò alla norme comunitarie sulla scelta del contraente, sulla libera prestazione di servizi e sulla libertà di stabilimento[2].
Alla luce di questa premessa, la risposta al quesito esclude la possibilità per un’amministrazione aggiudicatrice di introdurre autonomamente limitazioni alla partecipazione di questo tipo: infatti, “the Directive is based on the principle that all economic operators are treated equally and nondiscriminatorily”, anche quando si tratta dell’erogazione di servizi solo parzialmente soggetti alla direttiva (come i servizi sociali), al punto che è stato necessario prevedere in modo espresso le eccezioni a tale principio (cfr. l’art. 19 della direttiva 24/18/CE sui laboratori protetti).
Ciò non significa che le limitazioni alla partecipazione siano vietate in assoluto: infatti, gli Stati membri possono con legge stabilire eccezionalmente “a restricted access to certain services for the benefit of nonprofit organizations”; non si tratta, in ogni caso, di restrizioni applicabili indiscriminatamente, poiché secondo la risposta al quesito “restriction could be justified, in particular, if it is necessary and proportionate in view of the attainment of certain social objectives pursued by the national social welfare system”[3].


3. I criteri di scelta su base territoriale

Un altro quesito di interesse è quello inerente all’utilizzabilità di criteri di scelta del contraente che tengano conto del suo ‘legame’ con il territorio[4]: sebbene non riferita solo alle organizzazioni non profit, la risposta interessa sicuramente i servizi forniti da tali soggetti.
Si afferma in particolare che simili criteri non sono del tutto vietati, purché siano pertinenti e proporzionati rispetto allo scopo che il servizio deve perseguire e non si risolvano invece in un elemento discriminatorio[5]: infatti, “a requirement of familiarity with the local context might lead to an unlawful discrimination of service providers from abroad”, tuttavia “certain requirements related to the local context may be acceptable if they can be justified by the particularities of the service to be provided (type of service and/or categories of users) and are strictly related to the performance of the contract”. Esemplificativamente vengono indicati tre casi: è legittima la richiesta di avere un ufficio o una filiale nel luogo ove deve essere eseguita la prestazione, se ciò è indispensabile per il suo corretto adempimento; è altresì legittima, per servizi che possono riguardare minoranze etniche o linguistiche, la richiesta agli operatori di una conoscenza del “relevant cultural and linguistic context”; può essere infine legittima, a certe condizioni, la richiesta del possesso di esperienza pregressa in servizi analoghi a quello da prestare.

4. Considerazioni conclusive

Dall’allegato esaminato pare emergere il tentativo di un contemperamento fra le regole del mercato e la crescente rilevanza del ruolo svolto dalle organizzazioni non profit; quel che più rileva, è che il superamento dell’idea del carattere non economico dei servizi sociali non ha comportato la completa marginalizzazione di tali soggetti, ma anzi un loro inserimento (sia pure ‘temperato’) nella logica della concorrenza.
L’impostazione seguita dalla Commissione apre però una serie di problemi, di rilievo tutt’altro che secondario. Anzitutto, a differenza di quanto accade nel diritto nazionale, nell’impostazione comunitaria non sembrano assumere rilievo le differenze fra le varie organizzazioni non profit: eppure, risulta difficile trattare allo stesso modo realtà fra loro molto diverse (si pensi, ad esempio, all’assoluta peculiarietà del regime normativo delle associazioni di volontariato).
Si pone inoltre il problema del riparto della competenza legislativa fra Stato e Regioni con riferimento alla previsione delle limitazioni alla partecipazione alla gara. Nella giurisprudenza della Corte costituzionale, il carattere economico dell’attività implica la competenza statale sulla tutela della concorrenza (art. 117, comma 2, lett. e, Cost.), mentre la competenza regionale è limitata alle attività che si presentino prive di tale carattere[6]: nell’impostazione comunitaria tale distinzione risulta però in larga misura superata, nel senso che “in pratica, fatta eccezione per le attività relative all’esercizio dei pubblici poteri, che ai sensi dell’articolo 45 del trattato CE sono escluse dall’applicazione delle regole del mercato interno, … la stragrande maggioranza dei servizi può essere considerata ‘attività economica’ ai sensi delle norme del trattato CE in materia di mercato interno (articoli 43 e 49)”[7]. Se non si vuole giungere ad escludere ogni competenza regionale in materia, bisogna allora ritenere che ̽come ha chiarito in altra occasione la Corte costituzionale̽ “appartengono … alla competenza legislativa concorrente o residuale delle Regioni gli interventi sintonizzati sulla realtà produttiva regionale tali comunque da non creare ostacolo alla libera circolazione delle persone e delle cose fra le Regioni e da non limitare l’esercizio del diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale”[8].



[1] Cfr. pag. 5 della Comunicazione.
[2] Cfr. pag. 7 della Comunicazione.
[3] Il documento richiama su questo punto la decisione della Corte di giustizia 17 giugno 1997, C-7/95, Sodemare.
[4] Cfr. il quesito 2.6, pag. 11: “Is it allowed to introduce as a criterion for the selection of a service provider its familiarity with the local context, this aspect being often essential for the successful provision of an SSGI?”.
[5] A titolo di esempio, nel quesito 2.6. citato alla nota precedente si afferma che è legittima la previsione della necessità di avere un ufficio o una filiale nel luogo ove deve essere eseguita la prestazione, se ciò è indispensabile per il corretto adempimento; si afferma che è altresì legittima, per servizi che possono riguardare minoranze etniche o linguistiche, la richiesta agli operatori di una conoscenza del “relevant cultural and linguistic context”; così come può essere legittima, a certe condizioni, la richiesta del possesso di esperienza pregressa in servizi analoghi a quello da prestare.
[6] Corte cost. 27 luglio 24, n. 272.
[7] Cfr. pag. 5 della Comunicazione del 27.
[8] Corte cost. 13 gennaio 24, n. 14.