La discussione del 27 novembre

La democrazia partecipativa e deliberativa è alla ricerca di una sua identità : tra regole e informazione, il Prin muove i primi passi

Un approccio critico

Riprendendo l’ultima parte dell’intervento di Bin, Daniele Donati (unità operativa di Perugia, nonché caporedattore norme di Labsus) ha sottolineato l’importanza di una riflessione sul ‘lato oscuro’. “Non bisogna innamorarsi del tema – ha detto – senza vederne questi lati. Cosa rimane, per esempio, della rappresentanza democratica? Cosa non viene federalizzato, sussidiato, partecipato? In materia di giustizia non esiste partecipazione, perché?”.

Secondo Donati, sono spunti utili “per capire di cosa parliamo e quali sono le condizioni di transizione. Quelli della democrazia rappresentativa e partecipativa sono modelli alternativi o coesistono? C’è un rischio di compromissione dell’interesse generale con l’interesse pubblico? Sicuramente c’è il rafforzamento in fase discendente del potere, e la partecipazione assume un profilo etico-moralizzatore. Il rischio è però che venga meno il dpvere di governare”.

Arena: molte persone e istituzioni da coinvolgere. È una rete che può aprirsi per arricchire il progetto. Anche in questo Internet aiuta. È un tema molto sentito. Si può anche coinvolgere i diretti interessati: espressioni della società civile, con tutte le cautele del caso. In fase successiva si potrebbe aprire un progetto europeo. Il problema sarà semmai quello di contenere.

Un glossario condiviso

Secondo Margherita Procaccini (unità operativa di Perugia) “le ambiguità lessicali possono essere concettuali. Già la costruzione di un glossario potrebbe essere un elemento concreto della prima fase della ricerca, messo in rete”: Procaccini ha portato l’esempio del concetto di delega: “c’è un desiderio di vincolo di mandato. La partecipazione come si rapporta con la delega? Il glossario può essere di supporto e aiuto per tutti”.

“Sulla non condivisione del lessico – le ha fatto eco Alessandra Valastro, coordinatrice dell’unità perugina – si giocano spesso anche le ambiguità concettuali”. Anche secondo il coordinatore ferrarese, Roberto Bin, “il glossario, costruito attraverso un sito wiki, potrebbe essere il primo pilastro dello spazio web del progetto”.

Quale partecipazione? E dove?

Per quanto riguarda la delimitazione dell’ambito della ricerca, Gianni De Martin (coordinatore del gruppo Luiss) ha sostenuto che “non bisogna ignorare il potenziale della partecipazione tradizionale, ma è necessario concentrarsi sull’amministrazione, soprattutto locale, significativa sia sul piano normativo, sia sul piano delle esperienze. Tutti i profili individuati dall’unità di Perugia si declinano principalmente sul piano locale”. “Il livello locale è privilegiato – ha aggiunto Valastro – ma bisogna anche capire come vedere la partecipazione a livello nazionale”.

Su questo Bin ha posto la questione se sia corretto “escludere del tutto il tema della partecipazione nei partiti”. “Non ci occupiamo della partecipazione dei partiti – ha risposto Arena (coordinatore nazionale del progetto) perché se uno dei temi è ‘chi’ partecipa, allora i soggetti sono anche i non cittadini. I residenti, ad esempio, nonè detto che siano solo i cittadini. È un’idea di cittadinanza molto più ampia di quella formale”.

“Se gruppi di stranieri – ha continuato Arena – si prendono cura di un bene comune, si pone un problema di cittadinanza. Ancora: i circa 5mila minorenni figli di stranieri, non cittadini seppur nati qui… Siamo costretti a rivedere categorie fondamentali. È l’idea della sussidiarietà che mette nuove risorse, non ne toglie”.

Coordinamento e regole

“È necessario un forte coordinamento iniziale per evitare i rischi di sovrapposizione”. Questa la preoccupazione espressa da Marco Bombardelli (unità trentina). “L’idea del glossario – ha spiegato – ha anche un valore pratico per costruire insieme le definizioni, anche perché tra i punti individuati da Perugia ci sono molti intrecci con quelli delle altre unità”.

Bin ha concordato: “è indispensabile il coordinamento inziale. Si corre altrimenti il rischio della divergenza. Altro rischio è quello di finire per occuparsi di singole vicende, mentre non bisogna perdere di vista lo specifico giuridico”. D’accordo anche Valastro, che ha specificato: “non è che non ci siano regole sulla partecipazione, la sfida è proseguire nella costruzione di una teoria generale”.

Arena si è interrogato sulla necessità di immaginare “forme e strumenti diversi in base agli ambiti territoriali”. In questo, può dimostrarsi utile un “raffronto con le esperienze ‘tradizionali’ e formali di cittadinanza. Un tempo avere le infrastrutture – ha detto ancora – era elemento di sviluppo, oggi di conflitto. C’è una tensione tra interesse generale e interessi locali. Ma dov’è il punto di equilibrio?”

Se la scienza non è più neutrale

Quando si parla di cittadini che ‘si riprendono la delega’, siamo spesso di fronte a decisioni molto tecniche, ad esempio la Tav. “Qui – ha sottolineato Arena – si pone il problema delle competenze: un tempo gli scienziati assicuravano un punto di vista unico; oggi l’attendibilità dei dati scientifici è messa in dubbio. La scienza non è neutrale, e ciò crea un rischio dal punto di vista dello sviluppo”.

Ha concordato Fabio Giglioni (unità perugina e caporedattore giurisprudenza di Labsus): “uno dei filoni della ricerca di Perugia è la connessione tra partecipazione, funzione di controllo e tecnica. Perché la tecnica prima era territorio ‘neutrale’, e invece anche questo assunto è entrato in crisi. Fino a che punto può spingersi la partecipazione? Sul controllo fin qui si è pensato che non dovesse entrarci”. Rispetto alla valutazione, Daniela Bolognino (unità romana) ha ricordato “l’importante esperienza di Cittadinanzattiva in sanità, attraverso il tribunale dei diritti del malato. Un segmento di controllo, in questo caso, viene affidato alla cittadinanza”.

Secondo Bin, nel processo partecipato, “non è sull’aspetto valoriale il problema, ma nell’incertezza dei dati scientifici. Come nel processo, i dati sono di parte, cioè parziali. L’esperimento francese del dibattito pubblico si impernia su un elemento certo di autorità: il prefetto. Bisogna cioè stabilire una procedura con tempi, budget e risultati certificati o comunque riconosciuti. In Italia è più difficile il dato oggettivo che l’opinione e l’interesse”.

L’arena deliberativa

“Qual è l’oggetto della partecipazione? – si è domandato Arena – accanto al lessico serve una griglia di soggetti, oggetti e spazi. Il metodo va riempito di contenuti per capire il modo di far funzionare la democrazia partecipativa e deliberativa”. Spunto ripreso da Donati, che ha aggiunto: “bisogna guardare anche alla convergenza e opposizione di interessi. Qual è il metodo? La condivisione della decisione o quella del processo decisionale?”

Portando l’esempio del mondo anglosassone, è intervenuto Christian Iaione (unità trentina e caporedattore di Labsus). “Nell’arena deliberativa ci si concentra sui beni comuni –ha detto – non c’è un risultato prestabilito prima di entrare nel processo. Negli ordinamenti anglosassoni esistono strumenti che rompono il monopolio delle informazioni. Sono i portatori di interesse che portano anche l’informazione. L’idea è che l’obiettivo non è spartirsi le fette, ma allargare la torta”.

Secondo Iaione, è necessario “individuare procedure o strutture organizzative attraverso le quali gli interessi si incanalano, verificando caso per caso. Bisogna lasciare che gli interessi si scontrino, avendo fiducia che le posizioni siano riviste alla luce del bene comune”. D’accordo Valastro: “il valore aggiunto è che le decisioni entrano e si modificano. L’evoluzione delle preferenze è inconoscibile a priori. La sintesi è l’interesse generale come automatico regolatore”.

Riallacciandosi a questo, Arena ha voluto richiamare l’attenzione su un punto di fondo: “parlare di questi temi vuol dire avere fiducia nella risoluzione dei problemi attraverso la discussione e la comunicazione, avere fiducia nel logos”.

Arena ha ricordato il discorso di McCain di accettazione della sconfitta: “Mc Cain ha sottolineato la partecipazione degli americani alla scelta del presidente. Alla conclusione del processo, dunque, la decisione è accettata come interesse generale. Dal punto di vista del metodo, questo conclude il processo, cosa che in Italia non esiste”. Ma per Donati, in questo caso “funziona perché il decisore è terzo: l’elettorato. Nei processi di cui ci occupiamo, il decisore è uno dei portatori di interesse”.

Gli ha fatto eco Fulvio Cortese (unità trentina): “Nel modello classico dovrebbe funzionare così. Da noi, però, l’elettorato non è la pietra tombale. La crisi dei partiti ha fatto esplodere la voglia di partecipazione. Ne è stata la premessa” Lo sguardo critico lo ha portato, ancora una volta, Bin, richiamandosi ai sistemi tradizionali: “la democrazia si basa sui tempi lunghi del Parlamento. Un meccanismo di deliberazione costruito sulla condivisione lenta dell’informazione. Questa struttura oggi non soddisfa più nessuno”.

Anche per Donati “la chiave tempo è fondamentale. L’intermittenza serve a far ‘fermentare’ l’idea. La maturazione dell’opinione nell’intermittenza è fondamentale, sennò è il ‘sondaggismo’. Quello di buono che c’è nella partecipazione e nella sussidiarietà è l’incontro con l’inatteso. Questo è il valore da salvare”.

Comunicazione e informazione

Strettamente legato al tema della formazione delle decisioni, è emerso quello delle informazioni e della comunicazione. A partire da una provocazione di Bin: “Manca il tassello del canale di informazione – ha detto – oggi l’agenda è dettata dai mass media. E quasi tutti i giornali hanno aperto un canale di partecipazione attraverso i sondaggi”.

Secondo Francesca Romana Capone (caporedattore di Labsus per le relazioni esterne), il problema dell’informazione si declina su più fronti. “Da un lato – ha detto – i media dettano l’agenda e attivano i cittadini. Un processo non sempre ‘sano’, perché legato alle logiche e agli interessi di cui sono portatori i media stessi, più che all’interesse generale”. Su questo punto, secondo Donati, una possibile via di regolazione è di tipo ‘soft law’, attraverso i codici deontologici.

Altro aspetto fondamentale, ha proseguito Capone, “è come l’informazione e la comunicazione agiscono dentro il processo partecipativo, ma anche fuori di esso. Cioè come il processo stesso viene comunicato e condiviso con chi non partecipa”. Secondo Iaione, è necessario intervenire per “ridurre le asimmetrie informative”. Su questo, ha ricordato Donati, “la valutazione di impatto ambientale è un esempio paradigmatico”.

Arena ha ricordato come “l’informazione è spesso drogata a seconda del livello locale. Il tema delle informazioni è quindi cruciale, anche perché può accentuare gli aspetti emotivi, mettendo a rischio una valutazione più accorta, per esempio sullo sviluppo territoriale e nazionale”. Ma, per Renato Cameli (unità perugina), il problema non è solo dei cittadini o della stampa: “gli enti locali devono riagganciare le politiche amministrative con la partecipazione attraverso un’informazione tecnica e finanziaria in grado di interessare i cittadini”.

Perché non un codice?

“Comincio a percepire – ha detto Bin – la possibilità che la ricerca finisca con la realizzazione di un codice. È molto più facile scrivere le regole che spiegarle! Ci sono alcune risposte nell’ordinamento, ma come può essere un regolamento-tipo della partecipazione? Le parole possono scandire livelli diversificati di intervento dei portatori di interessi”. Sul fronte delle possibili regole “si possono immaginare sistemi di garanzie, come l’impugnazione delle decisioni deliberative”.

La ‘provocazione’ del codice è stata colta da Arena: “in fondo, se pensiamo a una definizione di potere come capacità di ridurre la complessità per gli altri, ciò significa ridurre la possibilità di scegliere. Perciò è necessario ragionare sulle regole: se si riconosce l’interesse locale, gli si dà la possibilità di ridurre la complessità di tutti gli altri. In Italia, in passato, piccoli gruppi hanno esercitato poteri enormi. Forse il meccanismo si è rotto lì. Alla fine parliamo di esercizio del potere, per questo è importante attenersi rigorosamente alla questione giuridica”.

Qualche preoccupazione la ha sollevata Marco Bombardelli: “Ho sentito tre parole ‘preoccupanti’: metodo, teoria generale, codice. Come obiettivi sono estremamente stimolanti, ma anche molto ambiziosi!”