Nuove forme di cittadinanza e democrazia partecipativa.

I cittadini per scelta insieme a quelli per nascita si facciano carico dei beni comuni!

A solo un anno dall’inizio del Prin “ Federalismo come metodo di governo. Le regole della democrazia deliberativa e partecipativa.”, il lavoro svolto da tutti i partecipanti risulta essere così avanzato da far pensare che sia alle ultime battute: c’è invece ancora un altro anno di studio che non potrà far altro che arricchire ancora di più una ricerca che sta diventando sempre più importante per la nostra società.
In particolare la giornata del 6 novembre, vedendo come protagonista l’unità operativa della Luiss, è stata incentrata proprio sulle due principali tematiche oggetto di studio di tale gruppo di ricercatori guidati dal Prof. Gian Candido De Martin che ha introdotto e presentato il lavoro svolto.

Si tratta del concetto di cittadinanza e di quello di democrazia partecipativa.
Quanto al primo, ci si interroga su come nel tempo abbia assunto un significato più ampio, abbracciando anche coloro che sono, a vario titolo, radicati sul territorio e che contribuiscono al progresso materiale e spirituale della società anche attraverso le iniziative dell’ormai noto ultimo comma dell’articolo 118 della nostra Costituzione, pur non essendo formalmente cittadini italiani.

Quanto invece alla democrazia partecipativa, l’attenzione degli studiosi si è fermata soprattutto sulle nuove forme di partecipazione operando una distinzione con quelle già note all’interno dell’ordinamento italiano e tracciando una linea di demarcazione con la democrazia deliberativa.

Molti gli ospiti di riguardo e i relatori impegnati nel progetto di ricerca presenti alla giornata di studio, tra gli altri diversi redattori di Labsus: innanzitutto il presidente Gregorio Arena a cui, in qualità di coordinatore nazionale del Prin, sono state affidate le conclusioni, ma anche Daniela Bolognino, Caterina Bova e Federica Parisi.
La giornata è stata divisa in due parti: quella della mattina dedicata alle “nuove frontiere della cittadinanza” e quella pomeridiana dedicata alla democrazia partecipativa.

A presiedere la prima sessione è stato il prof. Claudio Rossano (università “Sapienza” di Roma) che, pur dando ormai per scontata una evoluzione del concetto stesso di cittadinanza, ne ha evidenziato la complessità e i problemi che potrebbero scaturire da una sua sorta di “liberalizzazione” della cittadinanza che consentisse di ottenerla in qualunque Paese si vivesse anche solo per qualche tempo.

Il diritto di cittadinanza è un diritto fondamentale che sancisce il rapporto tra il cittadino e lo Stato a cui appartiene ma non è necessario se l’obiettivo è quello di assicurare i diritti e le libertà individuali, che sono comunque riconosciuti e garantiti a tutti.
Il problema risulta essere quindi di carattere prettamente politico e per poterlo affrontare non ci sarebbe altro modo che quello di cambiare la Costituzione: allo stato attuale non può dirsi che la Carta Costituzionale consenta un cittadinanza “allargata” agli stranieri al di fuori di ciò che prevede la legge.

La democrazia che rivitalizza la democrazia

La prima relazione è stata quella della Dottoressa Rosalba Picerno (università Luiss Guido Carli) dal titolo “Fondamenti costituzionali e forme di manifestazione della democrazia partecipativa”.
La relatrice partendo dall’analisi di una crisi profonda dello Stato, considera l’adeguamento delle istituzioni all’evoluzione della società civile come la necessaria conseguenza del cambiamento.

Si parla ormai di democrazia policentrica e di modello diffuso del potere statale che va sempre più spesso verso un’apertura dei pubblici poteri, che apre ai cittadini e che, in un modificato rapporto tra le istituzioni e la società, si prefigge di “armonizzare l’unità delle diversità”.
Con la democrazia partecipativa la società e le istituzioni si incontrano e si (ri)fondano sugli elementi della democrazia rappresentativa: solo includendo in quest’ultima le nuove forme di partecipazione si può rivitalizzare la democrazia.

Spesso si identifica la democrazia partecipativa con la sussidiarietà, ma quest’ultima va oltre prefiggendosi oltre alla partecipazione, anche l’azione e modificando il classico schema bipolare che da sempre ha caratterizzato il rapporto dei cittadini con la pubblica amministrazione.

Seconda generazione…di Italiani

“Le nuove frontiere della cittadinanza nel confronto tra cittadinanza legale e cittadinanza sociale: verso una riforma della legge 5 febbraio 1992, n. 91”.
Questo il titolo della ricerca presentata dalla Dottoressa Daniela Bolognino (università Luiss Guido Carli) che occupandosi del concetto di cittadinanza sociale, evidenzia non soltanto i diritti ad essa connessi ma anche i doveri, come per esempio la leva obbligatoria.
Passando poi ai diritti prettamente politici per la cui garanzia la cittadinanza sociale non basta, pone in evidenza il problema della tipologia della fonte legislativa legittimata ad introdurre il diritto di voto, come dimostra una sentenza del Consiglio di Stato che ha ritenuto illegittima l’introduzion edel diritto di voto attraverso una legge regionale considerando necessaria invece per tale materia una legge statale.

Il problema della cittadinanza diventa ancora più importante e delicato a proposito delle cosiddette “seconde generazioni”: bambini, figli di immigrati, nati sul territorio italiano.
L’inclusione, in questi casi, non è semplicemente una esigenza o un bisogno, ma il momento conclusivo di un percorso di pieno inserimento nella collettività.
Di quella collettività, infatti, quel bambino ormai adulto, si sente parte integrante avendone assunto cultura e stili di vita.
Ma quella che sembra ed è, o almeno dovrebbe essere una normale conseguenza, ovvero l’acquisizione della cittadinanza, diventa un problema quando per esempio ci si trova a dover interpretare l’articolo 1 del D.p.r. n. 572 del 1993 che utilizza la dicitura “residenza legale” riferendosi al periodo di residenza da considerare ai fini dell’acquisto della cittadinanza.
Dettagli che contribuiscono ad aumentare il carattere paradossale di una normativa che nega e concede la cittadinanza secondo criteri a volte discutibili, se solo si pensa al diritto di voto degli italiani che vivono all’estero e che sono completamente sradicati dal contesto territoriale.

L’importanza di educare alla partecipazione

Terzo e ultimo relatore della sessione mattutina della giornata di studio è stato il Dott. Vincenzo Antonelli (Luiss Guido Carli) con uno studio su “Cittadini si diventa: la formazione alla cittadinanza attiva”.
La democrazia partecipativa può incontrare nella sua esplicazione quotidiana innumerevoli ostacoli tra i quali: il linguaggio, il contesto, la cultura, la particolare forma di democrazia partecipativa utilizzata, come per esempio la e-democracy, o comunque qualsiasi tipo di asimmetria informativa.

Per cercare di eliminare questi ostacoli o quantomeno limitarne gli effetti, è necessaria innanzitutto la diffusione di una consapevolezza da parte dei cittadini dei propri diritti e dei propri doveri, una sorta di educazione alla cittadinanza che nel caso specifico degli stranieri deve essere accompagnata da un’efficace mediazione culturale, in quello che può essere definito un approccio “sicuritario”.

Formare coloro che vogliono partecipare, dice Antonelli, ma anche e prima di tutto gli educatori, i facilitatori, ovvero quegli esperti che hanno il compito di rendere la partecipazione consapevole e di qualità.
Un impegno quello della formazione e dell’educazione, che deve essere costante e necessario per evitare di pagare i costi, sempre più cari, in termini di conflitto sociale della non partecipazione o peggio dell’esclusione.

Tavola rotonda

Oltre ai relatori e ai partecipanti al Prin, erano presenti anche personalità del mondo del volontariato (Paolo Ciani della comunità di Sant’Egidio, dell’attivismo civico (Teresa Petrangolini di Cittadinanzattiva), rappresentanti di comunità di migranti (Ugo Melchionda dell’organizzazione internazionale per le migrazioni) e delle cosiddette seconde generazioni (Mohamed Abdalla Tailmoun di Rete G2-seconde generazioni).

Per Mohamed Abdalla Tailmoun la cittadinanza dovrebbe essere riconosciuta non soltanto a chi in un Paese ci nasce, ma anche a chi, essendovi arrivato da piccolo ci cresce assimilandone valori e cultura, rappresentando la cittadinanza stessa il primo e non l’ultimo passo nel percorso di inclusione.

Per Paolo Ciani, invece, il problema della cittadinanza agli stranieri è prima di tutto un problema degli italiani, un problema da risolvere attraverso il linguaggio in quanto espressione della cultura di un popolo.
I media dovrebbero iniziare ad utilizzare i termini giusti parlando degli stranieri non come un problema ma come una risorsa.
Ci sarebbe bisogno di una vera e propria svolta culturale per far si che, in un clima generalizzato di intolleranza, anche gli stranieri più integrati non pensino ad un futuro più felice soltanto lontano dal “proprio Paese”, ovvero dall’Italia.

La tavola rotonda, che ha rappresentato la parte conclusiva della prima sessione di studio, si conclude con l’intervento di Teresa Petrangolini che si sofferma sul significato di partecipazione che non si espleta con la democrazia partecipativa ma può essere arricchita dalle procedure di consultazione, ad esempio per la messa a punto dell’agenda politica.
In quest’ottica si colloca l’esperienza messa in campo da Cittadinanzattiva che ha partecipato ad un progetto comunitario che ha visto impegnati cento italiani alla presenza di esperti nella stesura di alcune raccomandazioni da mandare al parlamento europeo: ne sono state votate e inviate dieci che però purtroppo non sono state poi mai prese in considerazione nelle sedi legittime.
Il problema della effettività, insieme a quello della rappresentanza (chi rappresenta chi?) è uno dei nodi più difficili da sciogliere.

Seconda sessione di studio

La parte pomeridiana del convegno si apre con la relazione del Dott. Marco Di Folco (Luiss Guido Carli), con la presidenza del Prof. Gregorio Arena.
Il giovane relatore espone il suo studio su “La democrazia partecipativa nelle fonti locali” alla luce della riforma costituzionale del titolo quinto.
Tale riforma ha visto l’esplicita emersione in norme di rango costituzionale di un potere di auto ordinamento che mette nelle mani di comuni, province e città metropolitane, un significativo strumento per l’ulteriore sviluppo degli istituti di partecipazione.

Il dovere e il potere della Repubblica di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati per lo svolgimento di attività di interesse generale, infatti, è sancito dal “nuovo” articolo 118 ( ultimo comma).

I fondamenti della democrazia partecipativa possono essere trovati all’interno della Carta costituzionale già prima dell’importante riforma, in particolar modo negli articoli 1, comma 2 e 3 comma 2, quando si statuisce rispettivamente che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione e che la Repubblica si impegna a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono, tra le altre cose, l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Soltanto dopo la riforma costituzionale del 21 però si parla di sussidiarietà orizzontale che, dice Di Folco, si differenzia dalla democrazia partecipativa perché a differenza di quest’ultima, essa comporta un “fare” piuttosto che un “dire” e quindi un coinvolgimento non soltanto nella discussione, ma anche nella individuazione delle soluzioni operative ai problemi.

Partecipazione a “monte” e a “valle” dei procedimenti

La relazione successiva è stata elaborata dalla Dottoressa Francesca Di Lascio (università degli studi Roma Tre) e ha riguardato il tema della “Democrazia partecipativa nelle fonti statali”.
La sua analisi ha preso in considerazione le esperienze di democrazia non istituzionalizzate ovvero quelle forme di partecipazione democratica in cui gruppi di cittadini attivi esprimono la volontà di collaborare ai processi decisionali istituzionali misurando i propri punti di vista ed esprimendo le proprie istanze all’interno del circuito di mediazione degli interessi che culmina con l’adozione di atti normativi, regolamentari o amministrativi.

La caratteristica di queste forme di partecipazione, a differenza di quelle classiche della democrazia rappresentativa, è l’assenza di una procedimentalizzazione strutturata dei modi con cui si costituisce la relazione tra amministrazione e amministrati.

Il ruolo della partecipazione può essere misurato rispetto al momento del suo intervento: in quest’ottica si può parlare di forme di partecipazione a monte dei procedimenti normativi e forme di partecipazione che invece si collocano a valle dei processi decisionali presupponendo per la loro attuazione, l’espressione di valutazione dei servizi pubblici erogati e fruiti da parte degli utenti.

Un idem sentire europeo

“La democrazia partecipativa nell’ordinamento comunitario”, questo il titolo della relazione presentata da Domenico Siclari del Servizio Studi della Camera dei Deputati.
Siclari ritiene che lo sviluppo di una democrazia partecipativa effettiva all’interno dell’Unione Europea aumenterebbe sicuramente il grado di legittimazione democratica della stessa organizzazione.
All’idea di una cittadinanza europea comune, dovrebbe al più presto far seguito una serie di norme più concrete volte a consentire una partecipazione effettiva, che si possa realizzare non soltanto attraverso l’esercizio del diritto di voto, ma anche e soprattutto attraverso una sfera pubblica integrata e supportata da apposite reti di comunicazione.

Ai fini dell’effettività della partecipazione e per superare gli ostacoli derivanti da una diversità della storia e dello sviluppo dei sistemi di rappresentanza nei vari paesi, anche al livello europeo risulta essere necessario l’esercizio convinto e continuo di una forte cittadinanza attiva.

La cultura francese alla partecipazione

Le ultime due relazioni elaborate entrambe da redattrici di Labsus, analizzano le esperienze di democrazia partecipativa in due Paesi diversi dall’Italia per cultura e tradizione politica.

In particolare la Dottoressa Caterina Bova (università Roma Tre), si è occupata dell’esperienza francese mettendo subito i evidenza un elemento di forza rispetto a quella italiana: la presenza di una vera e propria cultura della partecipazione e non soltanto di un principio che fatica a diffondersi in tutta la sua effettività.

Nella relazione vengono analizzati i due istituti di democrazia partecipativa “atipici” che si sono sviluppati in Francia: il dibattito e l’inchiesta pubblica, che vengono adottati rispettivamente in materia ambientale e in materia di pianificazione delle infrastrutture.
in tali procedure di partecipazione si sostanzia il principio di trasparenza che, nell’esperienza d’oltralpe è considerato fondamentale e strettamente legato al diritto di informazione, in particolare al diritto ad una informazione svincolata dalla mera ricerca del consenso, per cui tutti, anche i soggetti più deboli sono posti nella condizione di poter informare.

Ovviamente anche in Francia la democrazia partecipativa incontra dei limiti e dei problemi irrisolti come, nel caso del dibattito pubblico, quello di poter essere utilizzato soltanto per progetti di grandi dimensioni o di essere diffuso sul territorio a macchia di leopardo a causa degli alti costi, anche se proporzionali ai risultati. Le stesse commissioni che vi partecipano sono portatrici di problemi: non sono mai del tutto imparziali e rappresentano difficilmente tutti gli interessi del paese e dei cittadini.

Nonostante le difficoltà, però, il processo di affermazione di una effettiva cultura della partecipazione risulta essere sicuramente più veloce e reattivo in Francia che in Italia.

Democrazia partecipativa e socialismo venezuelano

L’ultima relazione della stimolante giornata di studio è stata affidata alla Dottoressa Federica Parisi dell’Isfol che si è occupata nel suo studio dell’esperienza di democrazia partecipativa in Venezuela.

Perché il Venezuela?

Perché da un paese come il Venezuela con un sistema politico che oscilla paradossalmente tra una dittatura e una forma di democrazia perfetta, arriva un modello esemplare di partecipazione popolare.

Nel 1999 Hugo Chavez, attuale presidente del Venezuela, modifica la Costituzione riconoscendo una sovranità irrevocabile del popolo che la esercita direttamente: centotrenta articoli che favoriscono la partecipazione del cittadino alle istituzioni pubbliche.
Ci sono i consigli comunali (le cosiddette parrocchias), le missioni, e poi c’è il bilancio partecipato che rappresenta la prima forma di democrazia partecipativa in un grande contesto e vede come elemento caratterizzante l’interesse del cittadino al benessere del territorio in cui vive.

La questione della natura e degli effetti della democrazia partecipativa venezuelana rimane però ancora aperta, soprattutto a fronte di una scarsa autonomia delle organizzazioni sociali rispetto allo Stato.
Si è dinanzi ad una vera e propria dicotomia: da una parte una continua e diffusa delega al livello centrale di governo, dall’altra una forte cultura della partecipazione al livello municipale.

La domanda che ci si pone e per la cui risposta bisognerà attendere il prosieguo dello studio e della ricerca è: il modello di democrazia partecipativa adottato in Venezuela è percorribile ed imitabile, oppure è possibile soltanto in quel contesto politico e culturale?

Dal Molin: un esperimento di democrazia partecipativa autogestito

Finiti gli interventi dei relatori, a prendere al parola è Giovanni Sala di Legambiente che espone i nodi principali della situazione ancora irrisolta del Dal Molin, ovvero di un esperimento di democrazia partecipativa che in questo caso, avendo trovato innumerevoli ostacoli per una sua realizzazione, ha dovuto esplicarsi in forma autonoma.

Prescindendo dalle valutazioni di merito riguardanti la costruzione di una nuova base militare americana nella zona est della città, è importante analizzare l’insidioso percorso che i cittadini di Vicenza hanno dovuto seguire per esprimere semplicemente il proprio parere su una questione che riguardava e riguarda tutt’ora da vicino il loro territorio.

  • Ottobre 26 e maggio 27 due proposte di referendum: entrambe bocciate dagli esperti preposti alla valutazione.
  • Maggio 28: proposta di delibera consigliare popolare

  • una grandissima fetta di società civile che, progressivamente, avverte la necessità di partecipazione, si organizza , “compone” il quesito e interagisce con la parte istituzionale per la sua realizzazione.
  • il quesito è: “É lei favorevole alla adozione da parte del Consiglio comunale di Vicenza, nella sua funzione di organo di indirizzo politico amministrativo, di una deliberazione per l’avvio del procedimento di acquisizione al patrimonio comunale, previa sdemanializzazione, dell’area aeroportuale «Dal Molin» – ove è prevista la realizzazione di una base militare statunitense – da destinare ad usi di interesse collettivo salvaguardando l’integrità ambientale del sito?”
  • la consultazione prosegue e vengono inviate le schede agli elettori.
  • ricorso al Consiglio di Stato da parte dei contrari alla consultazione
  • consiglio di stato blocca la Consultazione affermando tra le altre cose che la sdemanializzazione dell’area non è possibile.
  • In meno di 2 giorni, quindi, il movimento vicentino organizza una consultazione auto-gestita, il comune esce di scena rischiando, altrimenti, il commissariamento.
  • Viene quindi prodotto un regolamento, vengono designati dei garanti della procedura, l’assegnazione dei presidenti e degli scrutatori dei centri di raccolta, la modalità e luogo dello spoglio.
  • Il risultato al livello di partecipazione è notevole: il 28,56 percento del corpo elettorale con il 95 percento dei “si”.

Ancora una volta si pone il problema della effettività della democrazia partecipativa.

AAA cercasi tempo

Di tutt’altro tipo è la partecipazione di cui parla invece Marialuisa Petrucci della Banca del tempo, presente alla tavola rotonda che ha messo in luce degli aspetti interessanti evidenziando la capacità dei cittadini di rispondere concretamente alle esigenze della comunità mettendo a disposizione non soltanto il proprio tempo, ma anche la propria creatività e il proprio talento.
Non si tratta di volontariato perché c’è reciprocità e scambio paritario ma serve comunque ad alimentare la cultura della partecipazione.

Sussidiarietà orizzontale: una prospettiva operativa

Tornando a parlare di democrazia partecipativa e di sussidiarietà prende la parola Giovanni Moro in qualità di presidente di Fondaca, la fondazione per la cittadinanza attiva, che ci tiene a fornire degli elementi di chiarificazione terminologica.
Mentre la democrazia partecipativa consiste in dibattiti e in discussioni, il compito della cittadinanza attiva è innanzitutto quello di agire.
Il significato di sussidiarietà che si evince dalla Costituzione è quello di partnership e integrazione ed è quello che più si confà all’attivismo organizzato dei cittadini, a differenza del principio di sussidiarietà ereditato dalla Chiesa che si basava essenzialmente su una divisione del lavoro.

La giusta prospettiva da tenere in considerazione è quella secondo la quale la democrazia partecipativa non rappresenta il tutto, perché altrimenti un’enorme quantità di cose rimarrebbe fuori, ma una parte, fondamentale, ma sempre una parte.

Se non c’è opinione pubblica non c’è democrazia

E’ proprio con queste parole che appartengono ad un grande giurista del Novecento, Hans Kelsen, che il Prof. Raffaele Bifulco dell’università Parthenope di Napoli inizia il suo discorso in qualità di discussant della seconda sessione di studio della giornata.

I concetti di democrazia deliberativa e partecipativa sono conosciuti infatti da tempo, ma nel tempo si sono modificati attraverso i cambiamenti storici e politici che hanno interessato la nostra civiltà.
Con il tempo si è arrivati alla consapevolezza che solo attraverso il procedimento si possono adottare delle decisioni condivise e legittimare così il decisore.

La democrazia, quindi, non è più soltanto uno schema formale, una sorta di proiezione, ma un insieme di procedimenti che portano alla trasformazione delle preferenze e non soltanto alla loro rappresentazione.

In questa idea di democrazia la Costituzione diventa la Carta delle regole che permette il bilanciamento corretto e legittimo dei valori attraverso la partecipazione. La riflessione da fare sui concetti di democrazia deliberativa e partecipativa, quindi, è innanzitutto costituzionalistica.

Arena: “ripopoliamo” la nostra terra

Un discorso chiaro e pregnante quello fatto a conclusione di tutto il convegno da parte del presidente di Labsus che ha ripercorso i grandi temi affrontati durante la giornata di studio lanciando nuovi spunti di riflessione.

Riferendosi alla cittadinanza per gli stranieri, il problema, dice Gregorio Arena, è che non siamo abituati all’idea che si possa decidere di essere italiani. Basterebbe invece semplicemente pensare che le patrie che si scelgono si sentono inevitabilmente più proprie rispetto a quelle che invece sono capitate in sorte.

Gli Italiani non hanno ancora “accettato” il fatto che il loro paese si sia radicalmente trasformato diventando un paese di immigrazione e non più di emigrazione.
Ma che cosa significa essere italiani?
Si pretende dagli stranieri un’identità stereotipata che probabilmente non esiste nella realtà: non c’è un’unica tipologia di italiano. Siamo tutti italiani ma in modi differenti.

Ogni legge sulla cittadinanza si basa essenzialmente su due principi: lo ius sanguinis e lo ius soli a seconda che si utilizzi la discendenza o il luogo di nascita per l’attribuzione del diritto.
Le leggi italiane del 1912 e del 1992 si basano sullo ius sanguinis rispondendo all’esigenza, che proveniva sempre dal fatto di essere un paese di emigrazione, di mantenere i legami con gli italiani che dall’Italia erano dovuti andare via per cercare un futuro migliore.

In altri paesi, invece, come per esempio in alcuni paesi dell’America Latina, c’era un problema ben diverso, ovvero quello di dover letteralmente riempire vaste zone ancora quasi deserte. In questi paesi la cittadinanza non era un “premio” da guadagnare, ma diventava una sorta di patto da stipulare.

L’Italia non ha terre da dover popolare, ma forse ha uno spazio pubblico da ripopolare di valori. Lo spazio delle istituzioni non è vuoto ma spesso è occupato in maniera impropria: parte di quello spazio potrebbe essere occupato da quegli immigrati di cui in questo convegno si è tanto parlato e che darebbero sicuramente nuovo vigore alla nostra democrazia.

Non rimane che un ultimo auspicio: “I cittadini per scelta insieme a quelli per nascita si facciano carico dei beni comuni…”