Modificare i comportamenti per salvare il pianeta (e noi stessi)

In tema di beni comuni anche ciò che sembra nostro in realtà  è di tutti

Con l’approssimarsi della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima che si terrà a Copenhagen dal 7 al 18 dicembre si moltiplicano le iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tema, considerato che anche quest’appuntamento, al pari del protocollo di Kyoto, rischia di deludere le aspettative di tutti coloro che sono convinti che le questioni ambientali non possano più restare ai margini dell’agenda politica senza mettere in pericolo il futuro di intere generazioni.
La preoccupazione di fondo che guida tali iniziative è che la risoluzione delle questioni ambientali non può passare solo attraverso accordi internazionali sottoscritti più o meno convintamente dai grandi della terra, senza tenere conto del fatto che tali accordi, qualora trovassero applicazione, produrrebbero conseguenze tali sulla vita quotidiana di milioni di cittadini, da rendere indispensabile la loro collaborazione.
Modificare comportamenti radicati nel tempo sembra un obiettivo apparentemente impossibile, anche se è proprio a questo livello che si producono quei mutamenti sociali e culturali che costituiscono l’obiettivo principale di una nuova sensibilità ambientale che chiama in causa lo sviluppo sostenibile, la tutela dei beni comuni e i diritti di cittadinanza.


“Effetto serra: la cura sei tu”

Sulle pagine di questa rivista si è già dato conto di una ricerca condotta da un gruppo di studiosi americani i quali hanno evidenziato che, modificando una serie di comportamenti quotidiani, i cittadini possono contribuire in dieci anni ad un abbattimento del 7,4 per cento di emissioni nocive .
Nelle ultime settimane Legambiente ha lanciato un’iniziativa dal titolo: “Stop the fever. Effetto serra: la cura sei tu” (http://www.stopthefever.org/home), nella quale i cittadini sono invitati a registrarsi su un sito, diventando così abitanti di una città “virtuale” e assumendo una serie di impegni davanti all’intera collettività, quali la raccolta differenziata, la riduzione della velocità in auto, l’utilizzo di lampadine a basso consumo, ecc. Un calcolatore aggiornerà in tempo reale il contributo fornito alla riduzione complessiva delle emissioni di Co2 grazie all’assunzione di questi comportamenti.
La stessa Legambiente, nella XVI edizione del rapporto annuale “Ecosistema urbano”, curato in collaborazione con Ambiente Italia, ha evidenziato un vistoso rallentamento delle politiche ambientali urbane. “È un’Italia più tartaruga che lepre, più cicala che formica, più elefante che gazzella”, anche se a fronte di circa 13 comuni capoluogo di provincia che restano al palo su isole pedonali, trasporti, verde pubblico, ci sono comuni come Verbania e Novara che con percentuali di raccolta differenziata superiori al 7 per cento hanno già raggiunto l’obiettivo del 65 per cento fissato per il 212. A queste due città si aggiungerà presto Salerno che, attraverso l’iniziativa della raccolta “porta a porta” ha inaugurato, prima città nel Sud Italia, una gestione dei rifiuti efficace e sostenibile.
Come sottolineato nel rapporto, c’è una ragione per la quale ciò che sarà deciso a Copenhagen interessa da vicino le città: perché in caso di accordo, una riduzione delle emissioni comporterà una profonda revisione dei modelli urbanistici, di trasporto e energetici, pena l’impossibilità di raggiungere quegli obiettivi; le città infatti sono tra i principali responsabili delle emissioni di gas nocivi. Cosa questo comporterà sulla ridefinizione dei comportamenti quotidiani di milioni di cittadini è fin troppo facile da comprendere.

Mio? Nostro? Di tutti!

Abituati da una mentalità economicistica a rivendicare la proprietà di tutto ciò che compriamo, facciamo fatica a comprendere che l’energia non è nostra anche se paghiamo la bolletta, che l’acqua non è nostra anche se sgorga dal rubinetto di casa, che la benzina non è nostra anche se l’acquistiamo al distributore. In tema di beni comuni, anche ciò che sembra nostro, in realtà è di tutti.
La stessa economia è consapevole del fatto che i beni comuni sono tutti quei beni il cui consumo da parte di qualcuno riduce le possibilità di fruizione da parte degli altri. Di conseguenza, il loro utilizzo implica l’assunzione di un principio di responsabilità condivisa, pena il rischio di addebitare agli altri il costo di una spesa che non hanno effettuato.
Spesso anche ciò che percepiamo come un disservizio nasconde un servizio reso alla tutela dei beni comuni: spegnere le luci prima di uscire dalle stanze e non richiedere in albergo il cambio quotidiano degli asciugamani; abbassare il riscaldamento nei luoghi pubblici; preferire l’acqua del rubinetto a quella minerale anche al bar o al ristorante, sono segni di rispetto dei beni comuni, anche laddove ci sentiremmo in diritto di reclamare un servizio.
Abitudini quotidiane apparentemente insignificanti nascondono insidie per la distruzione dei beni comuni, che possono trasformarsi in opportunità per la loro tutela, lasciando intravedere i segni di una nuova sensibilità che arriva ad investire il senso estetico, il gusto, l’impiego del tempo libero, l’esercizio dei diritti/doveri di cittadinanza.

L’importanza dei piccoli gesti quotidiani

Da questo punto di vista, l’assunzione di responsabilità in prima persona, finalizzata alla modifica dei comportamenti quotidiani dei singoli individui costituisce la grande rivoluzione culturale che si cela dietro ogni progetto di sviluppo sostenibile.
È chiaro che normative adeguate, capaci di farsi interpreti di una nuova sensibilità diffusa nel corpo sociale, potrebbero accelerare tali processi, così come è chiaro che il mondo delle imprese, delle pubbliche amministrazioni ha un ruolo fondamentale nel perseguimento di determinati obiettivi, ma anche in questo caso ad essere messi in discussione sono una serie di comportamenti acquisiti, il cui cambiamento comporta un costo per il singolo individuo – non solo in termini economici, ma soprattutto di tempo e di energie personali – che va a vantaggio dell’intera collettività.
La tutela dei beni comuni in vista dell’adozione di un modello di sviluppo sostenibile sortisce l’effetto latente di rinsaldare i legami di comunità e di contribuire alla diffusione di una visione del mondo alternativa a quella fondata sull’utilitarismo. Davanti alla tutela dei beni comuni, l’interrogativo più frequente – “chi me lo fa fare?” – perde di significato, nel momento in cui l’ “io e il “noi” si ricongiungono di fatto in un legame solidale.
Lo sviluppo oggi per essere tale può essere solo sostenibile, altrimenti sarebbe come ammettere la possibilità di bilanci con sole entrate e nessuna uscita. E la distruzione di beni comuni quali l’aria, l’acqua, la terra è un costo che nessun bilancio può permettersi di sostenere a lungo, senza portare al fallimento.