Una delle sfide più grandi per i processi di auto-organizzazione è quella di opporsi ai fenomeni esclusivi delle città contemporanee, dove la marginalizzazione delle realtà non riconosciute è crescente

L’iniziativa, ricca di interventi e contributi da tutto il mondo, si è focalizzata sull’analisi delle pratiche auto-organizzative presenti già in molte realtà urbane, presentandole come modello di amministrazione diretta in grado di favorire la costruzione di città collaborative, dove residenti e istituzioni interagiscono per rappresentare e difendere i propri interessi.

La città collaborativa

Per gli organizzatori il modo con cui guardiamo la città sta cambiando radicalmente: mettendo in discussione la relazione tra istituzioni e cittadini, i processi di auto-organizzazione stanno riconfigurando sia il meccanismo di costruzione del luogo sia l’organizzazione delle relazioni sociali e dei servizi locali.
Queste sperimentazioni sono focalizzate sull’azione che ridefinisce simultaneamente le modalità del conflitto sociale, nonché le routine e gli spazi della cittadinanza. I siti dove le pratiche si manifestano possono essere considerati come arene in cui sperimentare e formare la capacità politica, sfidando così il funzionamento stesso della democrazia locale.
Sono, per definizione, situazioni ambigue in cui soggetti diversi, con intenzioni e interessi differenti, interagiscono e possono anche entrare in conflitto tra di loro. Ciò diventa ancora più complicato in una condizione in cui il ruolo delle istituzioni sta cambiando e le dinamiche socio-economiche hanno un impatto diretto sullo stato sociale.
Per questo anche le istituzioni iniziano a guardare con interesse verso questi approcci bottom up, cercando di ascoltare le comunità caratterizzate da processi auto-organizzativi. Si potrebbe parlare di una necessità delle istituzioni di trovare nuovi soluzioni per far fronte alla richiesta di partecipazione della cittadinanza, se non fosse che le modalità con cui si approccia al dialogo spesso rischiano di diventare dei tentativi di normalizzare la partecipazione e il conflitto sociale, piuttosto che essere esperimenti tesi verso il cambiamento delle policy (come nel case study di Playagata a Madrid).
In molte occasioni, infatti, è proprio al di fuori del contesto istituzionale che si riesce a dare vita a progetti innovativi in grado di rispondere alle esigenze della città e di ridare vita a luoghi abbandonati, come nel caso del Metropoliz a Roma e della Cavallerizza Reale a Torino, entrambi nati in seguito ad occupazioni “abusive” ed accomunati dal ricorso all’arte come strumento per proteggere e legittimare il riuso degli spazi.

Auto-organizzazione per l’inclusione

Una delle sfide più grandi per i processi in questione è sicuramente quella di opporsi ai fenomeni esclusivi delle città contemporanee, dove la marginalizzazione delle realtà non riconosciute è crescente.
Esemplare è il caso del campo per rifugiati Palestinesi e Siriani a Beirut in Libano, dove è il calcio ad essere mezzo di innovazione sociale e di integrazione. Si tratta di campi extraterritoriali all’interno dello Stato Libanese, controllati militarmente e quindi senza possibilità per i rifugiati di entrare in contatto con la città. L’occupazione di alcuni spazi abbandonati all’interno del campo ha dato vita a un campo da calcio e ad una squadra di calcio di rifugiati (Yarmouk Team) che partecipa a tornei nazionali, permettendo così il reinserimento del campo rifugiati all’interno del circuito cittadino e la ridefinizione della mappa della città. Ciò, inoltre, contribuisce alla creazione di un forte senso di appartenenza tra gli abitanti del campo.

Una strada per ridurre disuguaglianze e conflitti sociali

I campi di intervento per questa “nuova” concezione dell’organizzazione urbana sembrano infiniti, come dimostra il tentativo di Economia Popolare in Argentina con l’occupazione e l’autogestione operaia delle fabbriche chiuse con la crisi del 2000. Il recupero delle fabbriche e la gestione dei servizi comuni può segnare la strada per nuove forme di welfare in grado di ridurre le disuguaglianze sociali e di pianificare il conflitto urbano, rivedendo prima di tutto le forme economiche ed amministrative del territorio.
Anche all’interno di queste nuove visioni di gestione delle risorse e dei beni comuni si innestano però dei rischi che vanno considerati e calcolati per favorire l’esito positivo dei processi. Tra questi i più citati sono: il rischio di essere utilizzati dalle istituzioni politiche ed economiche per riprodurre in maniera alternativa i meccanismi alla base delle strategie accumulative del capitalismo neo-liberale o per normalizzare il conflitto sociale e la partecipazione tramite concessioni e patrocini, minando così il supporto della cittadinanza, che è alla base di questi processi.
Per salvaguardare e favorire la crescita di una città auto-organizzata, dove le comunità sono parte attiva nei processi di governance, un ruolo importante lo può svolgere, allora, la ricerca sociale. Ne è un caso esemplare il programma East Saint Louis Action Research, ideato dalla University of Illinois per migliorare la qualità della vita tramite una maggiore partecipazione delle comunità locali nelle fasi di pianificazione e progettazione degli interventi. Il caso sottolinea come la natura esperienziale e non lineare del processo di ricerca sia fondamentale, ponendo così le basi per un importante futuro apprendimento sociale sulla riflessione critica degli errori del programma.

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