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Glossario dell’amministrazione condivisa

Il nostro glossario ha lo scopo di intercettare ed esplicitare i principali lemmi e locuzioni riconducibili alle esperienze regolamentari promosse e sostenute da Labsus. In particolare, le singole voci offrono nel complesso un quadro conoscitivo sintetico e coerente, che sarà costantemente aggiornato, in ordine a profili contigui all’amministrazione condivisa, garantendo, al contempo, la possibilità di effettuare rapidamente eventuali approfondimenti, grazie alla indicazione puntuale di apposite fonti bibliografiche e riferimenti normativi.

Amministrazione condivisa

(a cura di Luca Caianiello)

L’amministrazione condivisa è un modello organizzativo disciplinato nel regolamento sull’amministrazione condivisa dei beni comuni, che, in attuazione del principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, co. 4, consente ai cittadini e all’amministrazione pubblica, in specie al Comune, di svolgere su un piano paritario attività di interesse generale, concernenti la cura, la rigenerazione e la gestione condivisa dei beni comuni. Al riguardo, è possibile definire “cittadini attivi” tutti i cittadini (singoli, associati e collettivi) che, a prescindere dai requisiti riguardanti la residenza o la cittadinanza, si attivano per lo svolgimento delle richiamate attività di interesse generale.
Tale modello, dunque, è fondato su relazioni di collaborazione o, meglio, di condivisione, che si ispirano ad un complesso coerente di valori e principi generali, quali la fiducia reciproca; la pubblicità e trasparenza; la responsabilità; l’inclusività e l’apertura; le pari opportunità e il contrasto alle forme di discriminazione; la sostenibilità; la proporzionalità; l’adeguatezza e differenziazione; l’informalità; l’autonomia civica; la prossimità e territorialità.
L’amministrazione condivisa, inoltre, si contrappone idealmente al modello di amministrazione tradizionale, basato sul “paradigma bipolare” e dunque imperniato su rapporti asimmetrici, di tipo verticale, autoritativo e gerarchico.
Cionondimeno, nell’ambito dei rapporti sussistenti tra i cittadini e l’amministrazione, l’amministrazione condivisa non si sostituisce ad altri modelli preesistenti ma vi si affianca, come avviene con riferimento al modello di amministrazione tradizionale, che risulta comunque – è bene sottolinearlo – ineludibile per la configurazione dei poteri pubblici in genere, quali i poteri autorizzativi, concessori, sanzionatori e ordinatori.
Dal punto di vista strettamente giuridico e applicativo, le fonti giuridiche principali del presente modello sono rinvenibili, innanzitutto, nell’art. 118, co. 4, Cost, in secondo luogo, nel regolamento sull’amministrazione condivisa e, in ultimo, nel patto di collaborazione, secondo un ordine che va dal massimo grado di generalità e astrattezza al massimo grado di specificità e concretezza.

Per approfondimenti: G. Arena, Introduzione all’amministrazione condivisa in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 3-4/1997; S. Cassese, L’arena pubblica: nuovi paradigmi per lo Stato in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 3/2001; G. Arena, I cittadini attivi, una risorsa per l’interesse generale in A. Bixio e G. Crifò (a cura di), Il giurista e il diritto, Milano, FrancoAngeli, 2010; G. Arena, I beni comuni nell’età della condivisione in G. Arena e C. Iaione (a cura di), L’età della condivisione, Carocci, Roma, 2015; G. Arena, L’essenza della sussidiarietà è la creazione di una relazione di condivisione in Labsus.it, 2015; G. Arena, Prime riflessioni sul diritto dell’amministrazione condivisa in Labsus.it, 2016.

Riferimenti normativi: Art. 118, co. 4, Cost; Regolamenti sull’amministrazione condivisa dei beni comuni.

Baratto amministrativo

(a cura di Luca Caianiello)

A partire dal 2015, la formula lessicale “baratto amministrativo” comincia ad attecchire in Italia, grazie all’ampio ricorso che ne fanno gli amministratori pubblici locali – sulla scorta del disposto di cui all’art. 24, d.l. 12 settembre 2014, n. 133 (c.d. “Sblocca Italia”), poi, convertito con modificazioni dalla l. 11 novembre 2014, n. 164 – e alla positiva accoglienza da parte degli organi di comunicazione (la stampa in primis), che ne favoriscono la diffusione. Tale sviluppo è, da ultimo, alimentato da un intervento del legislatore nazionale, che recepisce il nuovo sintagma nella rubrica dell’art. 190, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, il c.d. “Codice dei contratti pubblici”, configurandolo quale contratto di “partenariato sociale”.
In linea generale, con l’espressione baratto amministrativo è possibile identificare una sorta di “scambio”, disciplinato mediante regolamento ovvero deliberazione a carattere puntuale, attraverso cui l’ente locale, in specie il Comune, prefigura il riconoscimento di riduzioni e/o esenzioni fiscali a fronte e in relazione a determinate attività che taluni cittadini, singoli o associati, si impegnano ad esercitare sul territorio di afferenza, concernenti, in particolare, la pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero la valorizzazione, il recupero e il riuso di aree e immobili inutilizzati.
Tale strumento (al pari della stessa locuzione), come rilevato in dottrina, risulta criticabile, in quanto è immediatamente evocativo di un modello relazionale tra amministrazione e cittadini tendenzialmente basato sulla logica del do ut des, non invece improntato sulla piena applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, co. 4, Cost., pure sotteso alle richiamate disposizioni di legge, che ammette – come noto – forme di partecipazione civica libere e spontanee per la gestione della res publica. Inoltre, tale strumento si pone in contrasto con il principio costituzionale della indisponibilità della obbligazione tributaria.

Per approfondimenti: A. Perrone, Si possono ridurre i tributi per premiare i cittadini attivi? in Labsus.it, 2015; F. Giglioni, Le ragioni per dire al baratto amministrativo in Labsus.it, 2015; G. Arena, Perché la Corte dei conti dice no al baratto amministrativo in Labsus.it, 2016; D. D’Alessandro, Un commento agli artt. 189 e 190 del nuovo Codice dei contratti in Labsus.it, 2016; P. Duret, «Baratto amministrativo» o «simbiosi mutualistica»? Divagazioni su recenti prospettive dell’amministrazione locale in AA.VV., Scritti in ricordo di Paolo Cavalieri, Napoli, Esi, 2016; F. Giglioni, Limiti e potenzialità del baratto amministrativo in Rtsa, 3/2016; Labsus, Rapporto Labsus 2016 sull’amministrazione condivisa dei beni comuni, 2016.

Riferimenti normativi: Art. 24, d.l. 12 settembre 2014, n. 133, convertito con modificazioni dalla l. 11 novembre 2014, n. 164; Art. 190, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50.
Riferimenti giurisprudenziali: Corte dei conti, sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, deliberazione n. 27/2016/Par; Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il Veneto, deliberazione n. 313/2016/Par; Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Lombardia, deliberazione n. 225/2016/Par.

Patto di collaborazione

(a cura di Luca Caianiello)

Il patto di collaborazione è un atto negoziale, concepito entro il quadro legale del regolamento sull’amministrazione condivisa dei beni comuni, attraverso cui il Comune e i cittadini attivi concordano l’ambito degli interventi di cura, rigenerazione o gestione condivisa dei beni comuni, tesi al soddisfacimento di interessi generali, regolando aspetti importanti del rapporto (collaborativo), quali gli obiettivi da perseguire, la tempistica, le modalità di azione, il ruolo ed i reciproci impegni dei soggetti coinvolti, le forme di pubblicità e altri ancora.
Il patto di collaborazione – che risulta stipulato a seguito di una sollecitazione comunale, promossa mediante avviso pubblico o di un’autonoma iniziativa dei cittadini – presenta, dunque, un contenuto particolarmente ampio, mediante il quale le parti specificano dettagliatamente le condizioni del rapporto.
Cionondimeno, nella prassi applicativa, cominciano a profilarsi due categorie di patti di collaborazione, in relazione al grado di complessità degli interventi concordati, nonché alla loro durata: il “patto di collaborazione ordinario” e il “patto di collaborazione complesso”.
Il patto di collaborazione ordinario ha ad oggetto interventi di cura di modesta entità, anche ripetuti nel tempo sui medesimi spazi e beni comuni – quali, a mero titolo esemplificativo e non esaustivo, la pulizia, l’imbiancatura, la piccola manutenzione ordinaria, le attività culturali e formative – e presuppone l’esperimento di un iter procedimentale semplificato, in cui, in particolare, la “proposta di collaborazione” dei cittadini, dopo essere stata filtrata da un’apposita unità organizzativa, viene approvata dal dirigente e/o responsabile di servizio competente, in ordine alla sua conformità legale e fattibilità tecnica.
Il patto di collaborazione complesso, invece, ha ad oggetto interventi di cura o rigenerazione su spazi e beni comuni, aventi un significativo valore storico, culturale o economico, che implicano la messa a punto di attività complesse e/o innovative, tese, più specificamente, al loro recupero, trasformazione e/o gestione continuata nel tempo. Da ciò ne consegue una maggiore complessità dell’iter procedimentale, in cui è coinvolto anche il livello politico, più in particolare la giunta comunale, chiamata a valutare la sussistenza dell’interesse generale, sottesa alla realizzazione del patto di collaborazione complesso.
Dal punto di vista formale e generale, il patto di collaborazione è da ritenere oggetto di disciplina pubblicistica, solo parzialmente riconducibile agli accordi di cui all’art. 11, l. 7 agosto 1990, n. 241, in quanto se è vero che esso è inscrivibile nell’ambito di un procedimento amministrativo, volto al soddisfacimento di interessi pubblici ovvero generali, è anche vero che trattasi di un procedimento sui generis, caratterizzato da principi in parte originali (delineati nel regolamento sull’amministrazione condivisa dei beni comuni), la cui conclusione, oltre a non essere tipicizzata dal legislatore, non può sostanziarsi in provvedimenti amministrativi.
In tal senso è da escludere, evidentemente, un’assoggettabilità del patto di collaborazione alla disciplina privatistica, fondata sulla disposizione, presente in diversi regolamenti sull’amministrazione condivisa, che richiama l’art. 1, co. 1-bis, l. n. 241/1990, secondo cui “la collaborazione […] si estrinseca nell’adozione di natura non autoritativa”. Una simile opzione interpretativa, infatti, renderebbe applicabile la disposizione di cui all’art. 190, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, rubricato baratto amministrativo, avente ad oggetto, più specificamente, una fattispecie contrattuale di c.d. “partenariato sociale”, caratterizzata dall’onerosità del rapporto, che stride con la ragione ultima sottesa al patto di collaborazione, concernente esclusivamente la realizzazione di interessi generali.

Per approfondimenti: G. Arena, Cosa sono e come funzionano i patti per la cura dei beni comuni in Labsus.it, 2016; F. Giglioni, I regolamenti comunali per la gestione dei beni comuni urbani come laboratorio per un nuovo diritto delle città in Munus, 2/2016; Labsus, Rapporto Labsus 2016 sull’amministrazione condivisa dei beni comuni, 2016; Sezione Patti di collaborazione di Labsus.

Riferimenti normativi: Regolamenti sull’amministrazione condivisa dei beni comuni; Artt. 11 e 12, l. 7 agosto 1990, n. 241.

Regolamento sull’amministrazione condivisa dei beni comuni

(a cura di Luca Caianiello)

Il “regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e rigenerazione dei beni comuni urbani” o “regolamento sull’amministrazione condivisa dei beni comuni” o, più semplicemente, “regolamento sull’amministrazione condivisa” è un atto normativo avente ad oggetto la disciplina delle forme di collaborazione tra i cittadini e l’amministrazione (in specie quella comunale) finalizzate alla cura, la rigenerazione e la gestione condivisa dei beni comuni. Tali collaborazioni si intraprendono o per iniziativa dei cittadini o su sollecitazione dell’amministrazione, mediante la stipula dei c.d. “patti di collaborazione” (si vd. la voce patto di collaborazione), nel pieno rispetto del principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale.
In altri termini, il regolamento ha ad oggetto la disciplina del modello organizzativo di amministrazione condivisa, il quale consente a tutti i cittadini (dunque singoli, associati e collettivi) e all’amministrazione di svolgere attività di interesse generale su un piano paritario.
Tale strumento giuridico si è diffuso rapidamente in Italia, a seguito della prima sperimentazione “pilota” del comune di Bologna, venuta alla luce il 22 febbraio del 2014.
I regolamenti sull’amministrazione condivisa presentano alcune caratteristiche tipiche in quanto, in particolare, attuano i principi di autonomia regolamentare e, soprattutto, sussidiarietà orizzontale, direttamente rinvenibili nella Costituzione, senza la necessaria (e usuale) intermediazione legislativa, garantendo rapidità nell’iter di approvazione, adattabilità rispetto alle peculiarità territoriali e facilità nella eventuale fase di modificazione; essi, inoltre, consentono ai cittadini di partecipare legittimamente alla vita pubblica, realizzando forme di democrazia partecipativa, da affiancare a quelle più note e tradizionali di democrazia rappresentativa e di democrazia diretta.

Per approfondimenti: G. Arena, Introduzione all’amministrazione condivisa in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 3-4/1997; G. Arena, I beni comuni nell’età della condivisione in G. Arena e C. Iaione (a cura di), L’età della condivisione, Carocci, Roma, 2015; Rapporto Labsus 2015 sull’amministrazione condivisa dei beni comuni, 2015.

Riferimenti normativi: Art. 114, co. 2, Cost; Art. 117, co. 6, Cost; Art. 118, co. 4, Cost.

Rigenerazione urbana

(a cura di Luca Caianiello)

Con questa espressione – contrariamente a quanto sostenuto da una parte di dottrina, che vi ha rinvenuto una mera sintesi verbale, riconducibile ad una pluralità di programmi e progetti incidenti sul tessuto urbano e caratterizzati da finalità eterogenee – è possibile identificare un processo di natura pubblicistica (o, meglio, preordinato al soddisfacimento di interessi generali), aperto alla partecipazione e alla collaborazione attiva della cittadinanza, volto a curare e gestire spazi urbani e beni, che hanno perso la loro funzione originaria ovvero degradati o, ancora, caduti in parziale o totale disuso, e, dunque, in ultimo, a generare utilità e benessere sociale.
Nel corso degli ultimi tempi le esperienze di c.d. “rigenerazione urbana” hanno trovato rapida diffusione nell’ordinamento interno (e non solo), sulla scia di alcune importanti iniziative promosse a livello sovranazionale, tese a favorire un radicale ripensamento delle politiche urbane, improntato sulla sostenibilità, nelle sue diverse declinazioni.
Simili esperienze, sebbene risultino variamente riconducibili ad una pluralità di fonti legislative e regolamentari di rango statale, regionale e locale, sembrano trovare una più compiuta disciplina nell’art. 16, l. 17 febbraio 1992, n. 179, che tratteggia la figura del “programma integrato di intervento”, oggi ascrivibile alla figura del “programma complesso” e, soprattutto, nel regolamento sull’amministrazione condivisa dei beni comuni, che ha avuto il particolare pregio di intercettare un’idea di rinnovamento sociale, spesso promossa spontaneamente dalla società civile e maturata al di fuori di un quadro di legalità formale. In effetti, ambedue i riferimenti giuridici – peraltro e auspicabilmente integrabili – presentano delle analogie significative: implicano la stipula di un accordo e la condivisione di risorse tra soggetti pubblici e privati; tratteggiano interventi di natura eterogenea e immediatamente applicabili; incidono su porzioni territoriali circoscritte. In questo senso, tali programmi e regolamenti e, più precisamente, gli accordi pubblico-privati ivi contemplati, risultano idonei a sopperire alle deficienze e rigidità ascrivibili alla pianificazione urbanistica, contribuendo ad una più effettiva e partecipata gestione del territorio. Tra i due strumenti, tuttavia, sussiste una fondamentale differenza.
A riguardo, occorre, infatti, rammentare che il patto di collaborazione delineato nel regolamento sull’amministrazione condivisa è sostanzialmente finalizzato alla valorizzazione delle istanze sociali di rigenerazione urbana; mentre la “convenzione urbanistica”, sottesa al programma complesso, ammette – in modo del tutto legittimo – il soddisfacimento di interessi privati, mediante il riconoscimento di “diritti edificatori” su spazi non ancora urbanizzati.

Per approfondimenti: F. Di Lascio e F. Giglioni (a cura di), La rigenerazione di beni e spazi urbani, Bologna, il Mulino, 2017; P. Urbani, La rigenerazione urbana: la posizione del giurista in Astrid, 10, 2017; P. Urbani e S. Civitarese Matteucci, Diritto urbanistico, Sesta edizione, Torino, Giappichelli, 2017; F. Giglioni, Beni comuni e autonomie nella prospettiva europea: città e cittadinanze in M. Bombardelli (a cura di), Prendersi cura dei beni comuni per uscire dalla crisi, Quaderni della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Trento, 23, 2016; R. Dipace, La rigenerazione urbana tra programmazione e pianificazione in Rivista giuridica dell’edilizia, 5, 2014; S. Amorosino, Il finanziamento e le dotazioni urbanizzative nei programmi di rinnovamento urbano in Rivista giuridica dell’edilizia, 6, 2013.

Riferimenti normativi: Regolamenti sull’amministrazione condivisa dei beni comuni; Art. 11, l. 7 agosto 1990, n. 241; Art. 16, l. 17 febbraio 1992, n. 179.

Social street

(a cura di Luca Caianiello)

Con il concetto di social street è, innanzitutto, possibile identificare uno spazio urbano – prevalentemente vie, ma anche quartieri, piazze, parchi, etc. – entro cui le persone che vi risiedono costruiscono e consolidano legami sociali. L’anglicismo è dovuto al procedimento di istituzione di ciascuna social street, che prevede, in particolare, l’apertura di un “gruppo chiuso” sul più noto dei social networkFacebook – ad opera del residente o dei residenti interessati.
Si tratta di un fenomeno che, a partire dalla prima esperienza di via Fondazza, a Bologna, nel settembre del 2013, ha trovato diffuso sviluppo su tutto il territorio nazionale, evolvendo rapidamente. In effetti, in alcuni casi, le social streets sono divenute dei veri e propri collettori di comunità (di prossimità), atti a generare e liberare energie sociali, per la cura, la gestione e la rigenerazione dei beni comuni urbani. In questo senso, simili esperienze si prestano ad essere accolte entro una chiara e adeguata cornice di legalità, che ben può essere ricondotta al regolamento sull’amministrazione condivisa dei beni comuni.

Per approfondimenti: www.socialstreet.it; Labsus.it; Labsus, Rapporto Labsus 2016 sull’amministrazione condivisa dei beni comuni, 2016.

Sussidiarietà

(a cura di Luca Caianiello)

Nell’ordinamento interno, la sussidiarietà è evocativa di due distinte ma connesse tipologie di principi di natura amministrativa, vale a dire il “principio di sussidiarietà verticale” e il “principio di sussidiarietà orizzontale”, i cui principali riferimenti normativi sono rinvenibili rispettivamente al comma 1 e comma 4 dell’articolo 118 della Costituzione, così come modificato dall’art. 4, l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3, recante “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”.
Il principio di sussidiarietà verticale può essere definito un criterio di allocazione, ripartizione e/o conferimento delle competenze e delle funzioni amministrative riconducibili in capo agli enti di governo territoriali, teso a privilegiare il livello di governo più vicino ai cittadini e, dunque, a legittimare l’intervento dei livelli progressivamente superiori, solo quando risulti necessario. Tale principio è strettamente connesso ai principi di “differenziazione” e “adeguatezza”, in forza dei quali il conferimento delle funzioni deve anche, nel primo caso, tenere conto delle caratteristiche strutturali, demografiche, organizzative e associative dei diversi livelli di governo e, nel secondo, conformarsi alle effettive capacità organizzative dell’amministrazione.
La sussidiarietà orizzontale, invece, in termini molto generali, è un principio di natura eminentemente “relazionale”, volto a regolare i rapporti tra gli enti di governo territoriali e i cittadini, in vista del perseguimento di fini di pubblica utilità ovvero interessi generali, come si evince dalla lettura della disposizione di cui all’art. 118, co. 4, Cost., secondo la quale “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”; tale principio, dunque, è suscettibile di varie interpretazioni, a seconda di come venga concepito rispettivamente il ruolo degli enti di governo territoriali e quello dei cittadini. Al riguardo, comunque, è possibile rinvenire due opzioni interpretative principali.
Più in particolare, se i ruoli risultano concepiti sulla base del rigido e tradizionale “paradigma bipolare” di matrice liberale – secondo cui, per quanto qui rileva, i soggetti pubblici e quelli privati (i due poli, per l’appunto) sono in contrapposizione tra di loro, in quanto spetta esclusivamente ai primi perseguire gli interessi di pubblica utilità e non anche ai privati cittadini, che risultano meri soggetti passivi del rapporto – allora la sussidiarietà orizzontale è declinabile quale (mera) riduzione ovvero esclusione della sfera d’azione pubblica a favore di quella dei privati cittadini, dando luogo, sostanzialmente, a forme di privatizzazione o esternalizzazione dei servizi.
Se, invece, i ruoli risultano concepiti sulla base di un nuovo ed innovativo paradigma di tipo “paritario” – in base a cui i cittadini, nel pieno della propria autonomia, possono scegliere di collaborare ovvero “allearsi” con gli enti di governo territoriali, per il perseguimento di interessi generali, condividendo con essi risorse di varia natura (umane, professionali, economiche, ecc.), nel rispetto (beninteso) di compiti e responsabilità distinte – allora la sussidiarietà orizzontale assurge a riferimento del modello di amministrazione condivisa.
Quest’ultima opzione interpretativa è senz’altro da preferire, in quanto, nel rispetto del dettato costituzionale, permette di configurare forme inedite di collaborazione, consentendo, altresì, ai cittadini di esercitare a pieno i propri diritti civili e sociali e, dunque, di realizzare forme di democrazia partecipativa, utili, insieme a quelle di democrazia rappresentativa e di democrazia diretta, alla risoluzione dei complessi problemi della società contemporanea.
In termini applicativi, il principio di sussidiarietà orizzontale, riconosciuto a livello legislativo centrale a cominciare dall’entrata in vigore della l. 15 marzo 1997, n. 59, trova applicazione, inoltre, sia a livello regionale (in specie negli statuti e nella normativa di attuazione) sia a livello locale, soprattutto attraverso le esperienze regolamentari aventi ad oggetto l’amministrazione condivisa.

Per approfondimenti: S. Cassese, L’arena pubblica: nuovi paradigmi per lo Stato in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 3/2001; G. Arena, Il principio di sussidiarietà orizzontale nell’art. 118 u.c. della costituzione in AA.VV., Studi in onore di Giorgio Berti, Napoli, Jovene, 2005; G. Arena, Cittadini attivi, Bari, Laterza, 2006; E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2012; G. Arena, L’essenza della sussidiarietà è la creazione di una relazione di condivisione in Labsus.it, 2015; F. Giglioni, Legislazione regionale in materia di sussidiarietà orizzontale in Labsus.it, 2016.

Riferimenti normativi: Art. 118, co. 1 e 4, Cost.