Il disegno di legge della regione Puglia sulla gestione dell'acqua

L'acqua come bene comune non è assoggettabile a leggi puramente economiche

L’acquedotto più grande d’Europa potrebbe tornare a indossare una veste pienamente pubblica se il disegno di legge appena adottato dalla giunta regionale pugliese (vd. allegato) venisse confermato dalla nuova giunta e approvato dal nuovo consiglio regionale. Il ddl prevede, infatti, la costituzione dell’azienda pubblica “Acquedotto pugliese”, la quale subentrerebbe sia nel patrimonio che nei compiti istituzionali di Acquedotto pugliese S.p.A.

La Puglia propone

La trasformazione in azienda pubblica, modello organizzativo di diritto pubblico, serve a proteggere la gestione del servizio idrico da un uso della risorsa orientato esclusivamente al lucro o al profitto e a sottrarlo, in tal modo e date le peculiarità intrinseche di questo bene, al mero gioco delle delle regole di mercato.

La nuova azienda, infatti, secondo il disegno di legge regionale, non ha finalità di lucro e persegue il pareggio in bilancio, utilizzando eventuali avanzi di gestione al solo fine di migliorare il servizio idrico integrato; non può gestire attività diverse da questo servizio, se non tramite società terze (anche miste), purché gli utili conseguiti siano utilizzati unicamente per investimenti volti ad aumentare la qualità e l’efficienza del servizio.

La sua amministrazione sarà affidata al consiglio di amministrazione, i cui membri verranno scelti tra persone aventi adeguate e comprovate competenze nel settore della gestione e organizzazione delle risorse idriche. Il presidente, il vicepresidente e altri tre membri saranno nominati dal presidente della regione Puglia e indicati dall’assemblea dei sindaci. La regione Puglia vigilerà inoltre sull’azienda e potrà disporre controlli in ogni momento.

Il disegno di legge in discussione sembra muovere lungo una linea di contrasto rispetto a quanto disposto dal recente decreto Ronchi (decreto legislativo 135 del 25 settembre 29), il cui articolo 15 prevede l’obbligo per gli enti locali di mettere a gara, mediante procedura competitiva ad evidenza pubblica, l’affidamento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.

Proprio nel momento in cui il governo in carica stabilisce l’obbligo di ricorrere alle regole del mercato, la giunta regionale pugliese, presieduta da Nichi Vendola, sancisce il principio dell’acqua come bene comune dell’umanità, non assoggettabile perciò a leggi puramente economiche; basando su questo presupposto il ritorno alla gestione pubblica del servizio idrico integrato. La rilevanza economica è condizione necessaria per l’applicazione del decreto governativo n. 135/29; sicché, affermare che il settore idrico ne sia privo vuol dire sottrarlo alle regole della concorrenza, e dunque all’obbligo di gara competitiva, facendolo invece rientrare nelle competenze esclusive della regione, secondo quanto disposto dall’articolo 117 della Costituzione.

Il disegno di legge regionale riconduce, inoltre, il caso Puglia a quelle situazioni eccezionali previste dall’articolo 3 del decreto Ronchi, in presenza delle quali è possibile derogare agli obblighi nel medesimo sanciti; si legge, infatti, nel comma 3 dell’articolo 1 del disegno di legge, che ”le strutture demaniali concesse in uso per la gestione del servizio idrico integrato pugliese sono dichiarate strategiche di rilevanza regionale, anche in relazione alla eccezionale situazione del contesto territoriale di rifermento, data da peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche”. Di tale maggiore partecipazione del cittadino, in questo caso come valutatore della bontà del servizio, si può trovare traccia nell’articolo 6 del disegno di legge regionale. In esso: si parla di “potere della cittadinanza di osservazione e proposta di modifica in merito agli atti di governance aziendali”; si prevede l’istituzione di un consiglio di sorveglianza e di controllo basato su modalità di rappresentanza dei lavoratori, delle associazioni ambientaliste, dei consumatori, dei sindacati, nonché dei rappresentanti dei comuni e dei comitati dei cittadini su base provinciale; si configurano meccanismi procedurali per coinvolgere i lavoratori, e su base territoriale la cittadinanza, rispetto alle decisioni inerenti agli atti fondamentali di pianificazione, programmazione e gestione.

La scelta della regione Puglia è un esempio di quell’opposizione alle privatizzazioni cui si sta assistendo, a più riprese, sul territorio nazionale. Si è avuto modo di costatare le inefficienze che hanno accompagnato, in alcuni comuni (Biella, Agrigento, Arezzo, Aprilia, ecc.), la gestione del servizio idrico ad opera delle grandi multinazionali dell’acqua, con consistenti aumenti delle tariffe a fronte di un mancato aumento degli investimenti, quando non di una loro riduzione.

Queste considerazioni hanno spinto parte dell’opinione pubblica a considerare il c.d. “oro blu” un bene comune, un diritto umano universale e inalienabile, la cui gestione va ripubblicizzata, nell’intento di perseguire quella che possiamo definire una gestione democratica partecipata del servizio.

Di tale maggiore partecipazione del cittadino, in questo caso come valutatore della bontà del servizio, si può trovare traccia nell’articolo 6 del disegno di legge regionale. In esso: si parla di “potere della cittadinanza di osservazione e proposta di modifica in merito agli atti di governance aziendali”; si prevede l’istituzione di un consiglio di sorveglianza e di controllo basato su modalità di rappresentanza dei lavoratori, delle associazioni ambientaliste, dei consumatori, dei sindacati, nonché dei rappresentanti dei comuni e dei comitati dei cittadini su base provinciale; si configurano meccanismi procedurali per coinvolgere i lavoratori, e su base territoriale la cittadinanza, rispetto alle decisioni inerenti agli atti fondamentali di pianificazione, programmazione e gestione.

Il diritto comunitario conferma

Quanto avvenuto in diversi comuni ove l’acqua è stata privatizzata fa pensare che la direttiva comunitaria 2/6/CE, che istituisce un quadro per l’azione dell’Unione europea in materia di acque, non sia stata pienamente recepita nel nostro Paese. In quest’atto comunitario si legge che, a partire dal 21, gli Stati membri devono provvedere affinché le politiche dei prezzi dell’acqua incentivino adeguatamente i consumatori ad usare le risorse idriche in modo efficiente e affinché i vari settori di impiego dell’acqua contribuiscano al recupero dei costi dei servizi idrici, compresi i costi per l’ambiente e le risorse.

Nei consideranda della direttiva viene inoltre precisato che “L’acqua non è un prodotto commerciale al pari degli altri, bensì un patrimonio che va protetto, difeso e trattato come tale”. Il legislatore comunitario non arriva ancora a definire l’acqua un bene comune, né ciò e avvenuto in sede internazionale, nonostante le trascorse due decadi per l’acqua promosse dalle Nazioni Unite.

Il diritto comunitario, però, lo differenzia da tutti gli altri prodotti per il suo carattere speciale, conscio, da un lato, della necessità di definire una politica comunitaria integrata in materia di acque e, dall’altro, dell’importanza di costruire un quadro legislativo coerente, efficace e trasparente. L’acqua non è un bene come tutti gli altri, al contrario la fornitura idrica è un servizio d’interesse generale, come indicato nella comunicazione della Commissione "I servizi di interesse generale in Europa" del 19 gennaio 21. Esso non deve essere obbligatoriamente liberalizzato o messo a gara, secondo la normativa comunitaria; al contrario, è prevista la possibilità di adempiere ai compiti di interesse pubblico direttamente mediante propri strumenti e senza che sussista nessun obbligo di affidarlo all’esterno (vd. Corte di Giustizia, CE, 11 gennaio 25, in causa C-26/3; nonchè Parlamento Europeo, Risoluzione 26/211- INI – del 27 settembre 26; e, infine, il Libro Verde della Commissione Europea sui servizi di interesse generale del 21 maggio 23).



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