La sussidiarietà  nell'interfaccia tra istituzioni e processi sociali.7

Prosegue l'analisi della sussidiarietà  come bene comune, in quanto tale fragile ed a rischio

È noto che molti aspetti del capitale sociale sono beni comuni, come per esempio la fiducia in quanto risorsa collettiva e in particolare le relazioni fiduciarie con istituzioni e sistemi di regole.
Meno spesso le istituzioni sono state viste nell’ottica dei beni comuni. O perché le si è poste in una dimensione normativa virtuale, irreale o lontana dal reale, comunque sovraordinata, o perché viceversa le si è calcolate piuttosto come risorse strumentali per l’agire autointeressato. In entrambi i casi viene obliterato il loro aspetto socialmente più significativo, che è quello di essere presupposto indispensabile e insostituibile dell’agire sociale.

Il ruolo delle istituzioni

Le istituzioni a loro volta sono un complesso di elementi eterogenei, non sempre riconducibili a logiche unitarie. Ma ci sono almeno due aspetti da esaminare. In primo luogo, le istituzioni costituiscono e contribuiscono a produrre dispositivi. In secondo luogo, offrono criteri e principi organizzativi per l’interazione sociale. Come dispositivi l’attore li coglie solo parzialmente, perché lui stesso è costruito con dispositivi. Questi sono un insieme di regole, sanzioni, premialità e statuti, che nella loro totalità non stanno nella disponibilità dell’attore. Dispositivi sono sociologicamente i ruoli sociali, che l’attore deve interpretare, ma entro limiti ristretti. Ancor più quando i singoli ruoli sono organizzati in modo reticolare o gerarchico. L’agire è preformato dai dispositivi, che peraltro lo rendono possibile. Come principi organizzativi le istituzioni strutturano contesti per l’azione, definiscono i giochi possibili nei vari ambiti, arene, mercati, assetti e così via.

La sussidiarietà come bene comune indivisibile

La sussidiarietà in questo quadro può essere vista da due lati: come principio organizzativo e come pratica generata e inserita in dispositivi. Nel primo caso, essa permette la costruzione di contesti inediti in cui possono interagire, con notevole grado di libertà e di innovazione, istituzioni pubbliche, imprese, organismi di terzo settore, forme di cittadinanza attiva. I principi e poi i criteri che ne derivano per strutturare queste modalità cooperative ed anche per valutarle si pongono come imperativi in quanto dovuti, ma hanno bisogno di essere creduti per diventare efficaci. Fin qui la sussidiarietà si presenta come una dotazione o forma di capitale istituzionale, che ha carattere di bene comune indivisibile e che come tale è anche esposta ai processi di degrado (non uso, abuso, deviazione, strumentalizzazione retorica) propri dei beni comuni (quella che si chiama la tragedia dei beni comuni, sulla quale torneremo in un prossimo contributo a inizio 211). La credibilità del principio e quindi gli affidamenti che gli si possono dare dipende da molte altre risorse cognitive e normative del regime politico ed istituzionale. Anche queste circolano come beni comuni, che eventualmente sono attivabili per rafforzare la credibilità e la fiducia o per eroderle. Ogni bene comune dipende moltissimo dallo stato di salute di tutti gli altri beni comuni. Ed ancor più quando, come nel caso del principio di sussidiarietà, esso viene a dipendere da molte altre risorse per potersi tradurre in affidamento degli attori (istituzionali e non) ed ancor più in dispositivo.

Pratiche sociali e istituzionali

Un dispositivo, sociologicamente, è una pratica istituzionale che conforma una pratica sociale. In qualche caso felice, magari vale un po’ anche il contrario. E la sussidiarietà proprio qui appare come un criterio per pratiche istituzionali che possono essere definite solo con il concorso di pratiche sociali. Ma è evidente la relazione ricorsiva, nel senso che queste ultime a loro volta non possono svolgersi senza un chiaro riferimento istituzionale. La sussidiarietà come principio e come pratica presenta un doppio volto, non facilmente coerente e convergente. Il principio segue la logica istituzionale e quindi è anche esposto a tutti i rischi connessi a problemi di lealtà, fiducia, efficacia, credibilità. La pratica sociale è immersa nelle mille ambivalenze del sociale, del locale, del fenomeno emergente e ancora poco strutturato. A seconda dei casi la pratica sociale o consuma molto capitale sociale, specie locale, o ne riproduce molto. Nel primo caso, contribuisce a indebolire il principio e criterio organizzativo, anche e proprio nella sua credibilità e nella sua cogenza normativa per le menti degli agenti. Nel secondo, invece, coopera a rafforzarlo proprio in quella validità che è poi il motore della vita istituzionale.

L’incrocio tra pratiche e principi

In sostanza la sussidiarietà è insieme un principio istituzionale e un motivo per agire. In entrambi i ruoli lo possiamo vedere come bene comune in quanto: a. componente del capitale sociale (normativo) disponibile che serve poi a produrre la serie dei beni pubblici indispensabili per generare benessere e stati di libertà e capacitazione; e b. come dispositivo forgiato da pratiche sociali, che continuano a trasformarlo rendendolo sempre più operativo. Se tutto va abbastanza bene, alla fine in entrambi i casi abbiamo un fattore di riproduzione di beni comuni quali la fiducia istituzionale, la dotazione di beni pubblici, la coesione sociale, la partecipazione e così via. L’incrocio felice sarebbe tra pratiche ispirate da principi e principi così credibili da riuscire ad ispirare pratiche.

Una controprova convincente

Si può fare la controprova: immaginiamo un sistema normativo senza il principio di sussidiarietà. Esso ci apparirebbe più povero, più rigido, molto avulso dal sociale, quasi ad esso contrapposto, generatore di dispositivi micidiali per il processo sociale, come tante volte è avvenuto in passato ed ancora oggi. Ma immaginiamo un agire sociale senza l’effetto di orientamento derivante dall’adesione a principi (di livello costituzionale): si tratterebbe di un sociale selvaggio, con enormi esternalità negative, antisociale, violento e prevaricatore (come avviene in tanti processi male o poco regolati tipo il traffico urbano). Quindi sia le buone pratiche (sociali) sia l’effettività e il riconoscimento di principi sono capitale sociale che si alimenta di un terreno condiviso di beni comuni e lo rende sostenibile.

Il ruolo di mediatore intelligente

Essere bene comune, e per così dire meritarsi questo statuto, implica essere o diventare fattore cruciale di mutamento istituzionale e quindi poi anche norma sociale condivisa e diffusa; ma significa anche essere un bene fragile e a rischio, esposto alle tragedie proprie dei beni comuni: non uso ed abuso. Sia le istituzioni che le pratiche sociali possono comportarsi molto male. Occorre perciò discriminare accuratamente tra le pratiche in relazione ai principi cui si ispirano, e valutare le istituzioni in rapporto alla loro capacità di contribuire alla riproduzione di beni comuni e alla loro cura. Non si tratta di astrazioni, come superficialmente potrebbe sembrare, perché in ogni caso concreto ciò che colpisce è proprio o la carenza di questi riferimenti essenziali o il “miracolo” (in genere frutto di duro lavoro) della germinazione di un bene comune dall’altro. E nell’interfaccia tra istituzioni e processi sociali proprio la sussidiarietà può svolgere il ruolo di mediatore intelligente, rivelando così appieno la sua natura di bene comune che – da un lato come principio e dall’altro come pratica – rende attiva la cittadinanza.


* E’ bene che il lettore prenda conoscenza del contributo precedente apparso su Labsus il 16 novembre 21.