Leggendo un romanzo, scrive Gaston Bachelard, “siamo trasportati in un’altra vita, che ci fa soffrire, sperare, compatire ma nonostante ciò ci lascia la complessa sensazione che la nostra angoscia resta sotto il dominio della nostra libertà”. Un’altra vita, molte altre vite. Chi si avvicina a Vita e destino di Grossman, a Madame Bovary di Flaubert, a Mattatoio n. 5 di Vonnegut scopre esperienze, desideri, sentimenti, emozioni diverse. Grazie a un libro vive dieci, cento, mille vite che mai avrebbe sospettato. Del resto, cosa faceva di diverso Niccolò Machiavelli, quando, venuta la sera entrava “nelle antique corti delli antiqui huomini, dove (…) io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni”? Grazie ai libri, aggiungeva il segretario fiorentino, “tutto mi transferisco in loro”.
Le biblioteche ci rendono uguali
Cosa c’è, quindi, di più comune di una biblioteca, che permette a Paolo e ad Alina, a Moussa e a Solangy, a John e a Deborah, a Philippe e a Greta di ritrovarsi con migliaia di autori del passato e del presente, oltre che ritrovarsi con altri cittadini di età diversa, di un quartiere diverso, di origine diversa? Le biblioteche sono luoghi che rendono gli uomini uguali: donne e uomini. Giovani e vecchi. Neri e bianchi. Poveri e ricchi. Italiani e stranieri.
Ciascuno con il suo libro, il suo giornale, il suo film, la sua musica ma insieme. Questa è la comunità reale, la comunità vivente che crea la biblioteca. Eppure le nostre biblioteche spesso sono chiuse, polverose, respingenti, poco usate perché un semplice smart phone ci permette di guardare film, ascoltare musica, scambiare messaggi e foto non solo con gli amici ma anche con chi sta in Australia, in Cile, in Siberia. In autobus, in treno, in auto, sulla spiaggia di Stromboli o in cima alle Alpi possiamo controllare le previsioni del tempo, le quotazioni di borsa o ascoltare Spotify. Ogni giorno in Italia si condividono on line milioni e milioni di foto.
Questo è il risultato, dice Roberto Casati, del fatto che “La lettura ci è stata rubata” e che il colpevole è la gang dei telefonini e dei tablet, guidata dal ben noto fuorilegge iPad, il primo e più elegante dei banditi tecnologici. L’iPad, spiega Casati, è il primo computer pensato come oggetto di consumo anziché di produzione, un oggetto che offre la possibilità di trasferire dati indipendentemente dal possesso di un desktop, praticamente in qualunque luogo e circostanza. Le app che ci tentano sono migliaia, scaricarle è il nuovo gioco alla moda. Grazie all’iPad non solo possiamo restare in contatto con gli amici 24 ore su 24 ma la comodità, la facilità d’uso, la buona definizione dello schermo ci permettono anche di scaricare libri, quindi prima o poi la maggioranza dei ricettari di cucina, dei manuali di giardinaggio, dei romanzi e dei saggi passerà da lì.
Possiamo fare a meno delle biblioteche?
La lettura, però, ha bisogno di tempo, di attenzione, di spazi protetti: Proust o Joyce male si adattano alle continue interruzioni che l’iPad ci impone. Dico “impone” perché l’essere sempre connessi significa aver rinunciato a quei momenti di solitudine mentale e di concentrazione che la lettura di un libro richiede. Non siamo mai soli, o forse siamo sempre soli in un luna park sfavillante di luci. E’ svanita la distinzione fra tempo di lavoro e tempo libero, ormai si lavora sempre: in autobus, a casa, in vacanza e anche questo ha un impatto negativo sulla lettura.
Se Casati ha ragione le biblioteche dovrebbero essere chiuse, affittate o volte ad altro uso. Templi di un mondo scomparso in cui il sapere era per pochi e doveva essere organizzato e custodito da specialisti, le biblioteche dovrebbero sparire o forse essere conservate per il loro valore architettonico, se ne hanno. I cittadini se la caverebbero benissimo anche senza,e magari potrebbero vedere migliorati altri servizi comunali grazie al risparmio reso possibile dalla cancellazione della relativa voce di bilancio: questa del resto sembra essere l’idea non solo del governo inglese ma anche del nostro che, come i suoi predecessori, lesina i fondi ai comuni per tutti i servizi, figuriamoci per le biblioteche.
Incontro, memoria, conoscenza
Al contrario, io sono convinta che avremo sempre più bisogno di biblioteche, ovviamente di nuova concezione. Se tra mezzo secolo non saremo ancora stati travolti dai cambiamenti climatici gli iPad saranno stati dimenticati da un pezzo (o saranno stati “riassorbiti” nell’uso comune, come le lavatrici) mentre le biblioteche saranno ancora vive e i bibliotecari molto ricercati. La ragione è semplice: ci sarà più che mai bisogno di luoghi di incontro, di conversazione, di cooperazione. Supponendo che gli stati nazionali permangano nella forma attuale, avremo più che mai bisogno delle piccole certezze della vita quotidiana, messe a rischio da leader politici che ripetono ossessivamente che tutto deve cambiare da un momento all’altro: il nostro lavoro, i nostri diritti, le nostre aspettative. Non si rendono conto che quando si cambiano ogni anno le regole del sistema pensionistico si danneggia gravemente il legame sociale perché si colpiscono le aree di certezza e di stabilità nella vita quotidiana. Quando si deplora il senso del provvisorio o l’incapacità di fare progetti dei giovani, non si comprende che è stata proprio l’insistenza delle élite e dei mass media sulla “flessibilità” a togliere loro quel minimo di stabilità necessaria a fare progetti per il futuro, una stabilità che derivava dal funzionamento regolare e durevole delle istituzioni.
La biblioteca rassicura assai più dell’inno nazionale perché è una piccola prova che teniamo conto degli interessi delle generazioni future: è il simbolo visibile che non tutto ciò che produciamo appartiene alla cultura “usa e getta” ma che abbiamo una memoria, che abbiamo delle cose in comune, dei beni che appartengono a tutti noi in quanto cittadini. La biblioteca dimostra che esiste un passato comprensibile e dotato di senso in un mondo schiacciato sul presente. E’ una “casa della conoscenza” che promette di darci la possibilità di ricostruire il mondo in cui viviamo in copia conforme, dovesse un giorno finire distrutto da una catastrofe ecologica o nucleare.
Che fare, dunque?
Durante l’assedio di Leningrado da parte dei nazisti, nel 1941, le biblioteche erano aperte. Nel 2013, al parco Gezi di Istanbul, c’era una biblioteca, creata con libri portati dai militanti, dove si lasciava e si prendeva quello che si voleva. Non solo: le biblioteche sembrano essere uno dei dispositivi più tipici delle proteste come Occupy Wall Street di New York o gli Indignados di Madrid. Scrive Zeynep Tufekci, una sociologa della University of North Carolina che ha studiato queste proteste: “Le biblioteche sono simboli fondamentali di un’etica della conoscenza non trasformata in merce. Chiunque, indipendentemente da quanti soldi ha, può prendere un libro in prestito, e il libro viaggia da persona a persona in una catena di condivisione della conoscenza. Forse più di ogni altra cosa, le biblioteche rappresentano un bene pubblico e uno spazio pubblico non commerciale e condiviso. Nell’allestire la biblioteca, i manifestanti esprimono anche il desiderio di dare la priorità alle persone rispetto ai profitti o al denaro, uno slogan comune a molte di queste proteste. E, a differenza di altre cose che si possono comprare, come cibo o vestiti o sigarette, ma che spesso vengono distribuite gratuitamente nei luoghi della protesta, i libri simboleggiano la conoscenza, occasionalmente la ribellione, e incarnano valori intellettuali. (…) I libri rappresentavano lo spirito della protesta: l’idea che le persone possono e devono interagire tra loro e scambiarsi idee in un rapporto non mediato dal denaro”.
Che fare, dunque? In Italia abbiamo visto in questi anni decine di esperienze di progetti culturali autogestiti come il Teatro Valle a Roma. Molte sono state durevoli, alcune hanno avuto successo, altre sono state soffocate dalle difficoltà obiettive e dalla sordità delle istituzioni. Oggi c’è bisogno di coinvolgere i cittadini in progetti che abbiano un sostegno almeno parziale degli enti locali: nuove “case del popolo” che mettano insieme lettura, cinema, musica e magari corsi di uncinetto, di origami, di scacchi.
Non sostituzione ma condivisione
Dobbiamo però insistere perché questi luoghi siano belli, spaziosi, ben gestiti. Non c’è nulla di peggio di dopolavori che non offrono nulla se non un bar e tavolini per giocare a briscola. Devono essere istituzioni che i cittadini sentano proprie ma gestite da personale competente, attivo, entusiasta. Alcune esperienze di patti di collaborazione vanno in questa direzione: quelle in cui i cittadini attivi o le associazioni coinvolte non svolgono una funzione sostitutiva, ma integrativa, arricchendo con ulteriori competenze e con la loro creatività la proposta culturale delle biblioteche, nonché ibridandone le funzioni (si vedano, a titolo di esempio, il patto di collaborazione con l’associazione Aprimondo a Bologna o il patto promosso dalla Casa delle Donne di Ravenna).
Ci sono anche esperienze di convenzioni tra associazioni e comuni per “affidare” una biblioteca a dei volontari, ma questi esperimenti, benché positivi, non sono sufficientemente ambiziosi e rischiano di diventare una foglia di fico per nascondere la vergogna di enti locali che non investono in cultura.
L’Italia ha bisogno soprattutto di istituzioni funzionanti: tutto l’anno, ricche, piacevoli, al servizio dei cittadini. Beni comuni, insomma, ma buoni beni comuni.
Antonella Agnoli è consulente per progetti culturali e bibliotecari, già componente del Consiglio superiore “Beni culturali e paesaggistici’” del MiBAC ed ex assessore alla cultura del Comune di un Lecce. Autrice di La biblioteca che vorrei (2014) Caro Sindaco, parliamo di biblioteche (2011) Le piazze del sapere (2009) La biblioteca per ragazzi (1999).
Foto di copertina di Jaredd Craig su Unsplash