Il fenomeno della “micro-rigenerazione” urbana riguarda il recupero delle aree urbane alla cittadinanza, il cui assetto territoriale rientra tra le funzioni proprie dei Comuni, nel quadro della competenza concorrente Stato-Regioni del governo del territorio. Questo il tema che Massimo Urbani affronta nella sua tesi di Master in “Istituzioni parlamentari ‘Mario Galizia’ per consulenti d’Assemblea”, che alleghiamo in calce alla presentazione dell’autore.
Le caratteristiche principali della micro-rigenerazione
A partire dalla crisi economica post-2007 e dalla connessa “legislazione di crisi”, le condizioni finanziarie degli Enti locali sono precipitate, determinando una strutturale difficoltà di intervento per la cura, il risanamento e l’organizzazione delle aree urbane, con conseguente progressivo abbandono e deterioramento di sempre più numerosi spazi ed edifici tanto pubblici, quanto privati e tanto nelle zone periferiche, quanto, oramai, nelle zone più centrali.
Diverse sono le questioni che tale fenomeno solleva: l’incapacità e l’impossibilità per le Amministrazioni locali di governare il territorio urbano attraverso gli ordinari poteri autoritativi; l’esigenza di recuperare alla città i molti beni e spazi abbandonati; la funzione sociale della proprietà privata; il riconoscimento dei cc.dd. “beni comuni urbani” e delle iniziative della collettività.
La micro-rigenerazione identifica il processo partecipativo della collettività nella “rigenerazione” di beni “comuni” urbani, lì dove l’azione dell’Amministrazione si è rivelata insufficiente: iniziative “dal basso” che sperimentano esperienze collettive di “riappropriazione” di beni pubblici o privati abbandonati (riqualificazione di parchi, riapertura di spazi pubblici, trasformazione di strutture private dismesse, ecc.). L’obiettivo è il recupero alla collettività di quei beni funzionali al soddisfacimento dei suoi interessi fondamentali, che, in quanto tali, sono intesi quali beni comuni, indipendentemente dalla natura pubblica o privata.
Agli Enti locali spetta facilitare, accompagnare e promuovere questa partecipazione dal basso, sulla base del principio di sussidiarietà orizzontale sancito dall’art. 118, co. 4, Cost., che prevede che i diversi livelli di governo “favorisc[a]no l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli o associati per lo svolgimento di attività d’interesse generale sulla base del principio di sussidiarietà”.
Emerge, dunque, un’innovativa funzione amministrativa non autoritativa di “micro-rigenerazione urbana”, quale attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale, per disciplinare la quale le Amministrazioni locali hanno approntato specifici regolamenti – il primo dei quali è stato adottato dalla città di Bologna nel febbraio del 2014 – volti a riconoscere e valorizzare le iniziative della collettività per una nuova gestione dei beni comuni urbani.
Il fenomeno della micro-rigenerazione sembra consolidare, allo stesso tempo, un diritto alla e della città. Da un lato, l’azione amministrativa locale sveste l’ordinario ruolo autoritativo esclusivo, in favore di un rapporto paritario con la collettività che si auto-organizza e che rivendica diritti, onde assecondare i processi sociali volti alla tutela dei beni comuni urbani e, dall’altro lato, la città come fonte autonoma di regole volte a disciplinare il suddetto rapporto: la città diviene, così, un laboratorio giuridico, politico-istituzionale e sociale.
I beni comuni urbani
L’esistenza di beni pubblici o privati immersi nell’area urbana e funzionali a rispondere alle esigenze fondamentali della collettività ma sottratti a qualunque uso perché abbandonati è il presupposto delle iniziative e degli interventi di micro-rigenerazione.
Questi cc.dd. “beni comuni” sono ancora privi di un espresso riconoscimento legislativo, nonché di una consolidata qualificazione giuridica da parte della giurisprudenza. Ad ogni modo, in via generale, essi – indipendentemente dalla natura pubblica o privata – sono individuati sulla base di un criterio funzionale, in quanto idonei a soddisfare interessi generali meritevoli di tutela e pertanto suscettibili di una fruizione collettiva che, nel caso dei beni privati, non può essere compressa dal proprietario, conformemente al dettato costituzionale che subordina l’esercizio individuale della proprietà a limitazioni atte ad assicurarne la funzione sociale (art. 42, co. 2).
È ormai nota la sentenza del 14 febbraio 2011 (n. 3665) delle sezioni unite civili della Corte di Cassazione, nella quale – in virtù del combinato disposto dei principi dello sviluppo della persona e della funzione sociale della proprietà (artt. 2, 3, e 42, Cost.) – si è superata la canonica dicotomia tra beni pubblici e privati e si sono identificati beni strumentali alla realizzazione di interessi collettivi, i quali, anche se non appartenenti allo Stato in forza di espresse disposizioni normative, sono, in quanto tali, comunque “riconducibili” alla comunità: beni che per loro natura o destinazione sono volti alla soddisfazione di bisogni durevoli e primari della collettività e la cui fruizione da parte di quest’ultima non può, pertanto, essere preclusa o limitata. I “beni comuni” sono, dunque, identificati in virtù di un criterio personale-collettivistico, in contrapposizione all’ordinaria impostazione patrimoniale-proprietaria.
È all’interno di questo quadro giuridico, in evoluzione, che si inserisce la definizione di “beni comuni urbani” fornita dal citato regolamento della Città di Bologna: “beni […] che i cittadini e l’Amministrazione […] riconoscono essere funzionali al benessere individuale e collettivo, attivandosi di conseguenza nei loro confronti ai sensi dell’art. 118 ultimo comma Costituzione, per condividere con l’Amministrazione la responsabilità della loro cura o rigenerazione al fine di migliorarne la fruizione collettiva” (art. 2).
I regolamenti comunali e i patti di collaborazione
I regolamenti comunali volti a declinare questa innovativa funzione amministrativa, avente ad oggetto la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani, sono il prodotto della “forza normativa della realtà”. La micro-rigenerazione nasce, infatti, quale fenomeno che sfida la legalità “formale”, sulla base di pratiche collettive d’uso volte alla riappropriazione di spazi o edifici abbandonati, in assenza di formale riconoscimento da parte dell’Amministrazione.
Circa centosettanta Comuni hanno ormai adottato regolamenti per disciplinare “forme di collaborazione tra cittadini e Amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani” (art. 1, regolamento del Comune di Bologna), con l’obiettivo di conciliare il principio di legalità con quello di auto-organizzazione e auto-produzione sociale: ovverosia emancipare, in attuazione della sussidiarietà orizzontale, le prassi sociali, facendole confluire in un riconosciuto e legittimo dialogo paritario con l’Amministrazione comunale.
Nei regolamenti comunali la gestione condivisa dei beni comuni urbani tra cittadini e Amministrazione prende forma e nome di “patto di collaborazione”, quale strumento negoziale preposto alla concreta disciplina degli interventi di micro-rigenerazione. Controversa è la qualificazione giuridica dei patti. Nella maggior parte dei regolamenti, essi sono definiti atti di natura non autoritativa, in questo modo valorizzando il profilo consensuale tipico del “patto”, al punto da rendere l’accordo requisito imprescindibile.
A livello comunale, il principio sussidiario è stato, fino ad oggi, declinato, principalmente, nell’affidamento al mercato dei servizi pubblici locali. Qui la partecipazione dei privati nell’attività di interesse generale si traduce nella mera esecuzione della strategia e della programmazione pubblica, rigidamente regolamentate nel contratto di servizio, senza che vi sia, invero, alcuna attività di “promozione” da parte dell’Amministrazione e alcuna reale “amministrazione congiunta”.
Diversamente, nel rapporto che si instaura nell’ambito del patto di collaborazione la sussidiarietà orizzontale si traduce in una marcata riduzione dell’asimmetria tra Amministrazione e privati, grazie al ricorso a moduli consensuali e al perseguimento di interessi comuni ad entrambe le parti: il patto, pertanto, non può ricondursi né all’azione autoritativa dell’Amministrazione, né ad un intervento esclusivo dei privati.
Tuttavia, perché il procedimento che conduce alla sottoscrizione di un patto di collaborazione possa svolgersi secondo la flessibilità che gli è propria, è necessario che si distingua dall’ordinario affidamento di un contratto pubblico, onde sottrarsi alla relativa rigida disciplina concorrenziale (d.lgs. n. 50/2016, Codice dei contratti pubblici). A tal fine, deve essere assicurata la sostanziale gratuità del patto di collaborazione e la natura non economica dell’attività di micro-rigenerazione (Corte di giustizia dell’Unione europea, sent. 19 giugno 2014, causa C-574/12, Centro Hospitalar de Setúbal, punto 33; Consiglio di Stato, parere del 20 agosto 2018, n. 1382, paragrafo 5).
A fronte dell’obbligo di gratuità del rapporto, il patto di collaborazione non deve, però, degenerare, diventando lo strumento attraverso il quale l’Amministrazione scarica i costi sulla cittadinanza più attiva e responsabile.
L’inquadramento costituzionale
L’innovativa funzione amministrativa di micro-rigenerazione, che vede il Comune nel peculiare ruolo di “promotore” e “facilitatore” delle iniziative della collettività nella cura e rigenerazione dei beni comuni urbani, trova la propria legittimità direttamente nella Costituzione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 118, 114, e 117.Il compito di promozione e facilitazione dell’iniziativa privata da parte dell’Amministrazione pubblica discende, in via generale, dall’art. 118, co. 4, Cost., che costituzionalizza il principio di sussidiarietà orizzontale (o sociale), in virtù del quale anche il Comune – così come lo Stato, le Regioni, le Città metropolitane e le Province – ha il compito di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, per lo svolgimento di attività di interesse generale: una relazione orizzontale tra società che si auto-organizza e Amministrazione. Tuttavia, non si chiede a quest’ultima l’astensione dall’esercizio delle proprie funzioni, bensì una propositiva attività di promozione e collaborazione nei confronti della cittadinanza: con l’art. 118, co. 4, Cost., si è, infatti, voluta valorizzare l’accezione “positiva” del principio sussidiario e non quella “negativa”, nel senso dell’astensione dei pubblici poteri laddove le forze individuali e della società siano in grado di soddisfare i propri bisogni autonomamente.
La possibilità per il Comune di auto-intestarsi questa nuova funzione di micro-rigenerazione urbana, in assenza di espresse previsioni legislative statali e regionali, sembrerebbe non doversi escludere e poter discendere direttamente dall’autonomia (politica) degli Enti locali, consacrata dagli artt. 114, co. 2, e 118, co. 2, della Costituzione, i quali sanciscono i Comuni sono titolari di funzioni amministrative proprie, senza, dunque, la necessaria intermediazione della legislazione regionale o statale (come, invece, precedentemente, prevedeva l’art. 128 Cost.): è attribuita ai Comuni una connotazione pienamente politica, in antitesi alla precedente impostazione di ente preposto all’attuazione delle “determinazioni” assunte dallo Stato (Corte dei conti, sez. delle autonomie, Adunanza plenaria, 24 novembre 2017, n. 26, punti 10 e 11).
L’autonomia riconosciuta ai Comuni si arricchisce, inoltre, di una propria potestà regolamentare per la disciplina delle proprie funzioni, ai sensi dell’art. 117, co. 6, Cost.: proprio da questa autonomia regolamentare traggono origine i regolamenti comunali sui beni comuni urbani (Corte dei conti, cit.).
Criticità e prospettive
Al di là delle Amministrazioni primarie di prossimità (i Comuni), non sembra, però, che delle nuove istanze partecipative della cittadinanza attiva si siano fatti carico gli altri livelli istituzionali di governo, specie le Regioni, che nel disciplinare la materia del “governo del territorio”, e quindi anche delle aree urbane, non risulta abbiano ancora sentito l’esigenza di fornire una chiara base legislativa alla funzione di micro-rigenerazione, lasciando che la stessa sia disciplinata in autonomia e solitudine dai Comuni.
Si segnala, tuttavia, in senso contrario, il caso della Regione Emilia Romagna, la quale – sollecitata dall’esperienza pionieristica della propria città capoluogo – ha previsto che “Allo scopo di attivare processi di recupero e valorizzazione di immobili e spazi urbani dismessi o in via di dismissione e favorire, nel contempo, lo sviluppo di iniziative economiche, sociali e culturali, il Comune può consentire l’utilizzazione temporanea di tali edifici, per usi diversi da quelli consentiti. L’uso temporaneo può riguardare sia immobili privati che edifici pubblici, per la realizzazione di iniziative di rilevante interesse pubblico” (art. 16, l.r. 21 dicembre 2017, n. 24).
La “forza normativa dei fatti”, ossia le pratiche collettive d’uso che hanno sfidato la legalità “formale”, hanno messo in moto un lento ed inesorabile processo di innovazione normativa, che accompagnerà la trasformazione delle città nei prossimi anni, con l’obiettivo di ottenere un compiuto riconoscimento da parte degli altri livelli di governo.
Il compiuto inquadramento giuridico della micro-rigenerazione urbana (declinata nei suoi variegati processi di recupero, potenziamento, riuso, riorganizzazione, risanamento, riqualificazione) può, più in generale, aprire lo spazio per un più organico diritto pubblico delle città, che permetta di ripensare le pratiche di partecipazione, cooperazione sociale e collaborazione civica, nell’ambito dei rapporti di sussidiarietà orizzontale.