In vista dell'evento di Bologna, a più di cinque anni dalla firma del primo Regolamento per l'amministrazione condivisa, cominciamo un viaggio per capire a che punto siamo con l'attuazione

Sono ormai più di 200 gli enti che hanno adottato il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni.
Da quel primo “Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani”, redatto e firmato dal Comune di Bologna insieme con Labsus il 22 febbraio del 2014, il paradigma collaborativo ha cominciato a farsi strada fino a diventare metodo, cultura, progettualità, pensiero diffuso in buona parte d’Italia.
Non ancora ovunque, né allo stesso modo, certo, ma con diverse priorità e comportamenti, coinvolge ormai, direttamente o indirettamente, circa 800mila cittadini attivi nell’interesse di circa 10 milioni di abitanti delle città –piccole medie o grandi che siano – in cui il Regolamento è sottoscritto e adottato.
E’ vero che nel corso di questi anni numerose sono state le amministrazioni locali che, spinte dalla volontà di un sindaco, di alcuni consiglieri o gruppi di cittadini, hanno adottato il Regolamento senza un vero coinvolgimento dei cittadini. Ma, oggi, sono sempre più gli amministratori consapevoli che non basta l’adozione del Regolamento per parlare di amministrazione condivisa. È necessario affiancare al percorso istituzionale un “processo nella comunità” che, così, sarà pronta ad avanzare proposte di collaborazione. “Il Regolamento vive – dice Pasquale Bonasora del direttivo di Labsus – se i cittadini lo sentono proprio, se garantisce quella “autonoma iniziativa” di cui parla l’art. 118 della Costituzione”.

Un percorso per capire come sta funzionando il Regolamento

Come sta procedendo la concreta attuazione dei Regolamenti, quali frutti stanno portando e quale spirito li sta accompagnando? Cominciamo una sorta di viaggio (in più puntate) per sentire la voce di chi è impegnato sul campo, politici, funzionari e cittadini, che ci danno, a partire dal proprio contesto, il polso della situazione. 
Intanto si sottolinea che la tipologia dei patti cambia molto a seconda dei comuni, della sensibilità dei proponenti, della capacità di costruire alleanze sul territorio: alcuni sono molto semplici, riguardano piccoli spazi, piccole aree verdi con azioni di cura non molto complesse e articolate. Ed è per questo, allora, che la consapevolezza di dover costruire “un processo di comunità” ha spinto numerosi comuni a costruire percorsi formativi per facilitare l’applicazione del regolamento (Parma, Sassari, alcuni comuni dell’area metropolitana di Torino ecc…). Rappresentano comunque un valore per la comunità di riferimento perché permettono loro di sperimentare un processo nuovo, tanto per le amministrazioni, quanto per i cittadini.
Poi si registra senz’altro un clima positivo, che segnala la netta percezione di un’innovazione in atto, di entusiasmo si potrebbe dire, che non sempre si rileva quando si parla di Amministrazione della Cosa pubblica. Anzi…
Come testimoniano le parole di Teresa Faticoni, dell’ufficio Amministrazione condivisa di Latina (che si occupa del front office e riceve richieste e proposte dei cittadini) che afferma: “Il Regolamento ha creato un ‘effetto contagio’ che ha permesso di mettere in rete associazioni ed esperienze, ma ha anche reso istituzionali alcune situazioni che esistevano sul territorio”; e quelle di Cristina Leggio (assessore Città Internazionale, Politiche Giovanili, Partecipazione e Smart City): “A Latina oggi ci sono luoghi che sono diventati più belli e cittadini e cittadine che, condividendo obiettivi e occasioni, hanno iniziato a viversi come comunità. Tutti i luoghi e gli strumenti a Latina si stanno trasformando gradualmente e, contemporaneamente, stanno nascendo nuove “abitudini” della comunità”.

Alcuni “pattisti” di quartiere Corvetto, periferia sud-est di Milano

“Un bene comune esiste nella misura in cui un gruppo di cittadini lo riconosce come tale e decide di prendersene cura. Tale processo trasforma fisicamente la città, rafforza i legami di comunità e promuove l’esercizio della cittadinanza da parte di coloro che scelgono di parteciparvi,” dichiarò a fine aprile scorso l’allora presidente della Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti, in occasione della firma del Patto “Verde Mompiani” (il primo Patto firmato nel quartiere Corvetto, uno dei quartieri  di Milano dove l’azione Luoghicomuni, dentro Lacittàintorno, promuove e sperimenta i Patti di collaborazione come strumento di rigenerazione urbana delle periferie, coinvolgendo 8 cittadini, 2 Comitati di quartiere, il gruppo informale Diversamente Occupati, l’associazione Casa per la Pace Milano e il Comune di Milano). A cui faceva eco con palese entusiasmo Lorenzo Lipparini, (assessore alla Partecipazione, Cittadinanza attiva e Open data): “Alla firma collettiva è trapelata l’emozione data dal mettersi in gioco insieme, cittadini e Amministrazione. Il momento della firma sembrava la celebrazione di un matrimonio: è stato evidente che il Patto ha dato risposta a una grande esigenza”.
Di positività intrecciata a realismo, sono fatti i pensieri di Marta Sansoni, Dirigente del Servizio Beni Comuni a Trento: “i cittadini cominciano a sentirsi valorizzati per le proprie competenze e per le risorse, acquisendo insieme più fiducia nell’Amministrazione. Soprattutto, poi, venendo a conoscenza di vincoli e limiti che l’ordinamento pone, e, di conseguenza, sono più disponibili ad accettare le difficoltà che s’incontrano per trovare soluzioni globali ai problemi. E, allo stesso tempo, sono anche più esigenti e sollecitano l’amministrazione a fare un cambio di passo, anche nella richiesta di riconoscimento, ad esempio, di maggior autonomia”. “C’è poi da considerare – aggiunge – quanto sia importante che la risposta che emerge – in maniera diretta – è il pensiero costituito dal “Sì, si può fare”, ossia della sperimentazione praticabile e non ipotetica o utopistica, della cura comune di un bene”.

Quali sono, allora, i risultati concreti che possono essere messi a bilancio?

I comuni che hanno attuato questo percorso sono quelli che hanno stipulato, o stanno stipulando, numerosi patti di collaborazione, informa Bonasora: sono più di 100 (Genova, Bologna, Trento, Palmi, ma anche Milano, Siena, Verona, Latina, Terni insieme a tanti altri piccoli comuni italiani). Difficilmente misurabili nella loro totalità. Sono, sì, numeri, di patti, di beni e risorse, ma anche di tante persone, idee e progetti, desideri e speranze. Come sottolinea Eugenio Petz, funzionario responsabile per i Patti a Milano: “Circa 40 patti di collaborazione attivati e in fase di attivazione suscitati dal Regolamento nell’arco di pochi mesi. Secondo Faticoni, a Latina il progresso è in atto: “In un anno e mezzo abbiamo sottoscritto 16 patti di collaborazione; stiamo per firmarne altrettanti, allargando il campo ai patti complessi e abbiamo ricevuto oltre 60 proposte di collaborazione (non tutte accoglibili)”. O i passi, giustamente graduali, del comune di Piedimonte Matese, dove, secondo Lucio Pascale, presidente dell’Associazione “Amici di Pericle” l’associazione capofila che ha portato avanti la battaglia recentemente giunta a successo nel comune campano, i risultati più rilevanti arriveranno con il tempo: “Dopo un periodo piuttosto lungo di “maturazione” il regolamento ha cominciato a generare i primi frutti, ovvero i primi patti di collaborazione. Al momento ne sono attivi due e diverse proposte sono in fase di realizzazione. L’interesse sta crescendo rapidamente e credo che con il contributo di tutti, si raggiungeranno ottimi risultati”. “Dal 2015 siamo riusciti a fare molti Patti di collaborazione – ci dice la responsabile di Trento, Marta Sansoni – numeri e tipologia li presenteremo il 9 dicembre alla Festa del Cittadino Attivo”, sottolineando inoltre quanto sia forte e decisivo collegamento con il mondo del sociale.

“Beni comuni Trento”, la piattaforma dedicata ai patti di collaborazione del Comune di Trento

“Però non ci si può limitare a questo”, ai numeri, afferma Eugenio Petz. “I patti sono notevoli per l’ambizione che mostrano, la capacità di leggere il territorio e le sue esigenze e per la rete che attivano. Questo successo va in gran parte ascritto all’esperienza e le capacità delle persone che hanno sostenuto il Comune in questo sforzo, in particolare Labsus, e che hanno messo a servizio le loro abilità”. Per Pascale, ancora, i risultati mostrano come sia cambiato “il rapporto tra cittadini e Amministrazione: l’esempio di cittadini che si stanno attivando, sta dando una spinta significativa ad una nuova visione del ruolo dei cittadini e del rapporto con l’Amministrazione. Passare dalla lamentela per quello che non funziona ad un approccio propositivo è, però, un processo culturale di lungo periodo che richiede un lavoro lungo e paziente”. Lo sostiene anche l’assessore dello stesso comune, David Salvatore Raucci: “Oggi c’è consapevolezza che tutti possono contribuire a migliorare la propria città, anche con piccoli gesti che messi insieme faranno un enorme differenza”. Ancora più importante è il risultato messo in evidenza da Leggio: “In una città dell’amministrazione condivisa quello che accade, come minimo, è che si condivide un’attenzione specifica alla cura dei rapporti tra le persone (ancor prima che tra istituzione e comunità), si sceglie di approcciarsi con fiducia. Vengono poi la ridefinizione dell’organizzazione dei servizi in base a nuove visioni ed obiettivi, la formazione di competenze nuove all’interno della realtà amministrativa e delle comunità e, infine, ma affatto banale, la revisione delle procedure amministrative”. E aggiunge consapevole e realista: “Tutto questo sta avvenendo in un processo non sempre lineare, ma continuo. Dobbiamo fermarci spesso a ragionare, rimodulare, correggere. E lo facciamo insieme, senza esimerci, cittadini e istituzione, dal dirci cosa non va o va modificato”.

E gli ostacoli, quali sono quelli che non consentono o frenano questo sviluppo?

Per Marta Sansoni “Il Regolamento richiede sempre un’incentivazione, un accompagnamento che si cala nella realtà delle singole situazioni, in cui i cittadini hanno bisogno di essere sostenuti. Il Regolamento in sé non è e non può essere esaustivo, soprattutto nelle situazioni di strutture complesse, dove intervengono problemi che riguardano, ad esempio, la trasparenza, o la scelta dei soggetti che compartecipano, o le eventuali conflittualità che intervengono su edifici o strutture di una certa dimensione. Richiede ancora un supporto giuridico ulteriore, soprattutto quando il percorso impegna per un certo numero di anni. Qui, tra l’altro, occorre ancora fare un salto di qualità sulla formazione e la responsabilità degli uffici competenti“. Aspetti tecnici molto importanti sono quelli cui fa riferimento Maria Laura Leonetti, responsabile del procedimento Servizio Amministrazione Condivisa dei Beni Comuni di Piedimonte Matese- quando parla della necessità di un’“apposita assicurazione per tutelare i contraenti del Patto, Amministrazione e cittadini”, ed è sulla stessa linea dell’assessore Raucci, che spera “si possa risolvere nel minor tempo possibile”. “I tempi troppo lunghi di elaborazione delle risposte da parte delle strutture pubbliche e le rigidità normative sono il mio cruccio quotidiano”, afferma Leggio con il punto di vista dell’esperienza quotidiana. E, aggiunge, come ostacolo forse più invisibile, ma non meno forte “i ‘vecchi’ modelli della partecipazione, che avevano al loro interno una modalità di gestione del potere accentrato e che vanno in crisi di fronte ad una proposta aperta ed ‘estremamente’ inclusiva. Non da meno, le competenze necessarie per lavorare insieme non sono innate tanto nei cittadini quanti negli amministratori e hanno bisogno di tempo e occasioni per crescere”. Articolato e complesso è il ragionamento che fa Petz, che non vuole parlare di veri e propri ostacoli, “bensì di normali ripercussioni/reazioni di un ambiente non preparato alla lettura di qualcosa di completamente nuovo come il Regolamento dei beni comuni. In generale in Italia il modello di amministrare per accordi non è ‘moneta corrente’, la pubblica amministrazione, soprattutto quella locale, normalmente agisce attraverso strumenti classici di carattere autorizzativo. C’è anche da dire che da un lato, la predisposizione del Regolamento mediante un percorso di sperimentazione sul terreno dell’istituto dei patti di collaborazione prima ancora di consolidarlo con il Regolamento, si è rilevato un percorso vincente perché ha azzerato sul nascere qualunque virata verso l’astrattezza e ha ricondotto tutti a una dimensione di espressione molto vincolata alla realtà e a esperienze concrete. La realtà è riuscita a disinnescare alcuni nodi giuridici che altrimenti sarebbero stati bloccanti. Il Regolamento è progressivamente penetrato in settori sempre più ampi del Comune di Milano. Inoltre il Regolamento va via via procurando ai municipi, che ne sono sempre più consapevoli, un ruolo nuovo. Tutti quanti stanno ancora cercando di capire dove spingere questa novità, come utilizzarla e capire gli aspetti più evidenti e quelli più reconditi, ma il processo è avviato e, secondo me, nel prossimo mandato il Regolamento sarà un’applicazione quasi banale”.

Cosa occorre, infine, per riuscire a fare un significativo salto di qualità e diffonderlo nel Paese?

Per Petz quello che manca nello spettro dei patti che si stanno realizzando (guardando la realtà del capoluogo lombardo che conosce meglio) “è un tipo di intervento operato da cittadini singoli su realtà locali molto circoscritte, mancano patti semplici. Questa è una stranezza perché si pensava che sarebbero arrivati per primi questi e successivamente gli altri, è però spiegabile facilmente perché i patti di collaborazione sono stati interpretati bene: usati prima dall’ampio tessuto delle associazioni e non ancora dal reticolo dei cittadini singoli”. Poi una direzione da seguire è “fare in modo che tutti i soggetti citati e già presenti riescano a sviluppare capacità e potenzialità ancora maggiori mettendosi a sistema, sforzo che si farà fino alla fine del mandato”. Per Leonetti è importante, nei piccoli Comuni, evidenziare “il raggiungimento degli obiettivi dei primi patti di collaborazione (l’esempio delle buone pratiche)” e far crescere l’esigenza di una continua informazione.

Un momento di formazione “ibrida” a Latina

Per fare davvero in modo che la cultura dell’Amministrazione condivisa prenda piede per Leggio ci sarebbe bisogno “innanzitutto di sostenere e promuovere sui territori (soprattutto su quelli ancora distanti dal modello) la costruzione ‘di un linguaggio del bene comune’, rivolgendosi a tutti i livelli istituzionali e non, mettendosi al fianco dei ‘primi esploratori’. Per far questo è molto utile implementare l’offerta formativa di servizi per gli enti locali e i territori (assolutamente efficace nella nostra esperienza la formazione congiunta di dipendenti comunali e cittadini/e). Senza dubbio fornire cornici normative e di prassi per continuare a ridefinire le procedure nell’ottica della cura della comunità e dell’interesse generale e promuovere un campo sempre più ampio di applicazione del Regolamento in risposta alle necessità delle comunità territoriali, con un’attenzione particolare ai temi dell’inclusione e dell’occupazione (trovando il giusto equilibrio, perché il modello non perda la sua identità)”.
È necessario – secondo Bonasora – che le amministrazioni costruiscano le condizioni per recepire quelle proposte attraverso la costruzione di un vero ufficio per i beni comuni, che dialoghi con i cittadini attivi e uno spazio web sul sito istituzionale per comunicare, mappare le esperienze, fare rete.
In quanto processo culturale, ha bisogno dei suoi tempi per essere assimilato, ma è al tempo stesso qualcosa di estremamente concreto perché il patto di collaborazione costruisce una relazione intorno a un bene comune attraverso azioni di cura portate avanti dai cittadini e dalle istituzioni, insieme!
Infine, è decisivo quel che dice Marta Sansoni, a partire da un’esperienza lunga e maturata negli anni come quella di Trento: “Tutta la Pubblica amministrazione deve porsi in modo complessivo nell’ottica di un cambiamento di mentalità, di una prospettiva diversa. I Beni comuni non devono essere “la riserva”, ma tutto il processo decisionale dell’amministrazione deve maturare in modo coinvolgente e partecipativo. Ci sono belle esperienze, anche in Italia, vanno valorizzate e tenute come esempio di replicabilità”.
E qui, di sicuro, si alza l’asticella della sfida da intraprendere. Sarà capace il nostro Paese di far diventare questa cultura patrimonio diffuso?

Immagine di copertina: geolocalizzazione dei Regolamenti per i beni comuni approvati, realizzata da Chiara De Grandi