L'ottava classifica annuale delle città intelligenti promossa dal FPA mette in luce vari aspetti da tenere in considerazione per uno sviluppo coerente e omogeneo necessario al nostro Paese. E si affaccia l'indicatore dell'Amministrazione condivisa.

La città è contemporaneamente uno strumento materiale di vita collettiva e un simbolo di quella comunanza di scopi e di consensi che nasce in circostanze così favorevoli. Col linguaggio essa rimane forse la maggior opera d’arte dell’uomo.

Così scriveva nel lontano 1938 uno dei massimi sociologi del secolo scorso Lewis Mumford. Lungimiranza? Visionarietà? Utopia? Forse. Sta di fatto che le cosiddette “città intelligenti” (smart), oggi non sono soltanto patrimonio dell’innovazione tecnologica e/o informatica. Lo prova la classifica delle città intelligenti italiane, curata da Gianni Dominici e Daniele Fichera del Forum nazionale della PA (con il contributo di Clara Musacchio), e presentata a fine anno scorso. E’ la cosiddetta ICityRank, la classifica della città italiane, elaborata ogni anno da FPA, giunta all’ottava edizione, che misura la capacità di adattamento (intelligenza, appunto) nel “percorso verso città più dinamiche, più funzionali, più ecologiche, più vivibili, più gestibili, più innovative e più capaci di promuovere uno sviluppo sostenibile reagendo ai cambiamenti in atto attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie”. La graduatoria è costruita sulla base di sei indici (e quindi con le relative classifiche “parziali”) fondate su sei dimensioni in cui si concretizza la qualità urbana: solidità economica; mobilità sostenibile; tutela ambientale; qualità sociale; capacità di governo; trasformazione digitale. Indici, a loro volta, che utilizzano più di 250 variabili (tratte da fonti qualificate o da specifiche indagini e rilevazioni effettuate da FPA; tra le principali fonti Istat, Unioncamere-Fondazione Tagliacarne, Agcom, Anci, Inail, Banca d’Italia, MEF, Min. Interno) e classificate in circa 100 categorie. Insomma: un vero e proprio modello ICR 2019, che, messo a confronto con i principali ranking delle città internazionali mostra il proprio valore.
Qui accenniamo a qualche nota sui risultati generali, rimandando al Rapporto e alle singole presentazioni sul sito.

Milano, leader…

La città in testa alla classifica generale, anche quest’anno, si conferma Milano, per capacità di utilizzare con intelligenza le innovazioni utili per interpretare il cambiamento. “Ma – scrivono gli autori – non è più la città sola al comando che emergeva dalle graduatorie ICR degli scorsi anni. Firenze e Bologna mostrano di aver proseguito e per diversi aspetti accelerato il percorso di innovazione e le loro performance si sono molto avvicinate – in alcuni casi superando – quelle della metropoli lombarda”.
Detto delle prime, il confronto con la graduatoria (anche per quelle parziali, di settore) rispetto all’anno precedente mostra una “geografia” che con un titolo si potrebbe identificare così: Le tre Italie.

Le tre Italie

Il risultato appare evidente: “con poche eccezioni (a partire da Firenze e Torino che sono in effetti includibili nella “prima Italia”) il primo terzo della graduatoria è dominato dalle città del “nuovo triangolo produttivo”, Centro-nord ovest; la parte centrale dalle appartenenti al resto del Centronord e quella finale dalle città del Mezzogiorno”. Con ulteriori considerazioni di accompagnamento: “Se il ritardo del Mezzogiorno non è certo una novità, colpisce il divario che sembra essersi creato tra l’est e l’ovest del Centronord”. Non è, quindi, un risultato confortante: “quando le gerarchie urbane rispecchiano gerarchie macro-territoriali di scala più ampia, tendono a sedimentarsi e diventa più difficile per le singole città seguire autonomi percorsi innovativi per superarle”. Per questo, aggiungono i curatori della ricerca fornendo un po’ di ottimismo, “vale la pena di guardare con grande attenzione alle eccezioni positive (a partire da Pisa e Cagliari) che rompono questo schema e riescono a collocarsi nelle fasce più elevate”.

I Poli intermedi dell’innovazione

Alcune città quali Bergamo, Trento, Parma, Modena, Reggio Emilia, Brescia, costituiscono insieme a Torino e Venezia il drappello delle “immediate inseguitrici” delle tre leader. Comprese tra i 120.000 e i 200.000 abitanti, costituiscono “centri di sistemi urbani che – al di là delle loro differenti dimensioni demografiche – rappresentano realtà produttive e centri relazionali consistenti”. Perché al centro di una dinamica in  evoluzione: nell’ultimo anno, hanno incrementato significativamente il loro punteggio riducendo la distanza dalle prime. Sulla base di quali fattori? “Le variazioni di posizione rispetto alla graduatoria 2018 possono certamente essere state influenzate dalle innovazioni metodologiche introdotte (accorpamento dei 15 indici di ambito in 6 indici dimensionali, introduzione di nuove variabili, ecc.), ma la gran parte degli indicatori è stata mantenuta e la descrizione riguarda sempre lo stesso fenomeno importante: cioè la capacità delle città di reagire in modo intelligente al cambiamento. È interessante osservare come le città che sono avanzate in misura più consistente siano, per certi versi fortunatamente, territorialmente più articolate di quanto non lo sia la graduatoria. Tra le città in crescita si evidenziano (oltre a Brescia che compie un balzo di 20 posizioni e a una città metropolitana come Palermo) numerose piccole città come Rovigo, Cuneo, Siena, Pavia, Pesaro, Benevento, Massa e Verbania. Queste si avvicinano alla pattuglia delle altre piccole città (Pisa, Mantova, Cremona) che già si collocano nelle prime 20 posizioni della classifica, articolando ulteriormente lo scenario.

Un nuovo approccio: i giacimenti

Si parte dal presupposto dato ormai per certo che, come la prima, anche la seconda rivoluzione digitale “impatterà sulla produzione di beni e servizi, sulle relazioni sociali e sui luoghi ove questi fenomeni si dispiegano, cioè innanzitutto sulle città. Ma non solo; uno degli ambiti di maggior rilievo della nuova convergenza è quello della raccolta, trasmissione, elaborazione e utilizzo dei dati che derivano non più solo dai comportamenti virtuali in rete delle persone come consumatori, ma anche dai loro comportamenti reali nello spazio fisico urbano come cittadini (o city user) che verranno sempre più monitorati, analizzati e utilizzati per produrre nuovi modelli di servizi urbani collettivi e nuove offerte di servizi individuali”. Le città, in altre parole, saranno, “uno degli spazi di convergenza e integrazione potenzialmente più rilevanti delle singole rivoluzioni tecnologiche in corso: aumento delle capacità dei sensori, delle funzionalità dei device digitali individuali, della capienza e velocità delle reti di trasmissione (5G), della capacità di calcolo quantitativa (cloud) e qualitativa (intelligenza artificiale), della connessione tra apparecchiature (IoT, M2M)”.
Ecco perché si usa un termine applicato per altre risorse che consentono il progresso dell’umanità, il giacimento. Le città, infatti, “sono i luoghi dove si produce la maggiore quantità di materia prima che tutte queste tecnologie utilizzano: i dati digitalizzati estraibili dalla rilevazione dei comportamenti concreti delle persone”.
Conclusioni. Informano i ricercatori (senza parlare, però, degli aspetti negativi, che riguardano implicazioni importantissime come tutela della privacy e il controllo delle persone e delle loro relazioni sociali e politiche) che le città che saranno “capaci di implementare sistemi tecnologici più avanzati e completi per la rilevazione e analisi dei “big data comportamentali” che esse stesse producono – e nelle quali saranno conseguentemente introdotte nuove modalità di erogazione dei servizi collettivi e nuove offerte di servizi individuali – diverranno più competitive sia come luoghi di residenza che come luoghi di produzione e potranno conquistare, direttamente, un nuovo ruolo.

Il peso della Qualità sociale e delle Capacità di governo

E qui intervengono, a correggere il rischio di un esclusivo dominio della tecnologia nelle relazioni di cittadinanza, l’analisi e i risultati (ma prima ancora l’approccio scientifico del ricercatore) di due dei settori presi in considerazione, a noi di Labsus particolarmente cari. La QUALITÀ SOCIALE, entrato come fattore di sviluppo (e quindi misurabile e classificabile) e la CAPACITÀ DI GOVERNO delle amministrazioni comunali, (con un attenzione specifica all’Amministrazione condivisa).
Per la prima – con 22 indicatori relativi a criticità culturali e servizi sociali, istruzione, flussi turistici e attività culturali – si analizza la vivibilità dei centri urbani. Per la seconda (la CAPACITÀ DI GOVERNO) sono stati utilizzati 17 indicatori per misurare i livelli di partecipazione civile, innovazione amministrativa e le condizioni di legalità e sicurezza. Uno di questi indicatori, va da sé, ma è la grossa novità di quest’anno è proprio l’AMMINISTRAZIONE CONDIVISA, descritto così (forse non in modo sufficientemente corretto): attivazione di strumenti di reporting o partecipazione e buone pratiche.
Come facilmente immaginabile, si legge nel rapporto, “sono le città metropolitane del Centronord, i luoghi più “completi” dal punto di vista delle esperienze d’innovazione sociale”, ma insieme ad esse troviamo anche due città del sud come Lecce e Palermo e centri urbani intermedi come Verona, Perugia, Pisa e Trento. Ai vertici della graduatoria per capacità di governo si collocano le città emiliano-romagnole che occupano ben sei delle prime dieci posizioni. Bologna ottiene il primo posto precedendo di poco Ravenna, mentre Forlì, Reggio Emilia, Parma e Modena seguono a breve distanza. “Un risultato – sottolineano i ricercatori – ottenuto grazie alle buone performance negli indicatori di partecipazione civile/coesione sociale, a valori discreti negli indici di legalità e sicurezza e soprattutto agli elevati risultati nell’impiego dei nuovi strumenti di innovazione amministrativa. Oltre a Firenze si collocano tra le prime dieci due città lombarde (Mantova e Bergamo) e ottiene un notevolissimo risultato Torino che raggiunge, anch’essa grazie soprattutto all’innovazione amministrativa, la quarta posizione assoluta nonostante sia “appesantita” da un valore elevato dell’indice di microcriminalità”.

Conclusioni: occorre un Piano strategico

Tutto ciò in estrema sintesi. Ma se si dovesse ricavare anche una sola prospettiva utile per il governo futuro delle nostre città, senza dubbio sarebbe la necessità di un UN PIANO STRATEGICO PER LE CITTÀ. Ossia: “Per far sì che la moltiplicazione delle esperienze sia virtuosa, è altrettanto fondamentale che vengano formulati degli indirizzi generali chiari, delle regole omogenee e istituiti luoghi d’interscambio, applicando anche alle problematiche connesse alla seconda rivoluzione digitale il modello virtuoso di interazione tra amministrazioni locali e agenzie nazionali specializzate utilizzato per la prima. Forse vale anche la pena di fare un passo ulteriore e cominciare a pensare alla definizione di un “Piano Strategico” di medio-lungo periodo dedicato alla seconda rivoluzione digitale, centrato proprio sullo sviluppo delle sue applicazioni ai centri urbani intermedi, a quelle città che, come scriveva Cattaneo, sono «l’unico principio per cui possano i trenta secoli delle istorie italiane ridursi a esposizione evidente e continua».
Sì, senza forse, vale proprio la pena fare il passo: un Piano strategico è ormai veramente necessario. Perché lo sviluppo a macchia di leopardo non diventi un limite anziché una risorsa del nostro impacciato Paese. Ma ne sarà capace l’attuale classe dirigente?