Il processo politico che ha portato all’inserimento del principio di sussidiarietà orizzontale in Costituzione è stato il frutto di un percorso lungo, non sempre lineare, maturato nel decennio degli anni Novanta e giunto a compimento con la riforma costituzionale del 2001. In un momento di forte crisi e sfiducia da parte dei cittadini rispetto alle forme tradizionali di partecipazione politica si crearono le condizioni per il riconoscimento della autonoma capacità dei cittadini nel perseguimento dell’interesse generale, mutamento intervenuto, forse, ben oltre la consapevolezza delle stesse forze politiche e sociali spinte, come spesso è accaduto nella storia del nostro Paese, più dalla necessità di superare la crisi di credibilità e consenso attraverso un’apertura alla cosiddetta società civile che dalla reale intenzione di porre le basi per un radicale cambiamento nel rapporto tra amministratori e cittadini, sino ad allora caratterizzato dalla contrapposizione di interessi separati e confliggenti, verso forme di collaborazione e corresponsabilità.
Da allora la transizione verso la costruzione di un nuovo modello, basato non esclusivamente sull’esercizio della delega e della rappresentanza, vede le forze politiche tradizionali sempre più in crisi. I nuovi scenari e assetti politici sembrano cambiare nel breve volgere di un mattino e i protagonisti si affannano nell’annunciare l’alba di una nuova repubblica caratterizzata, più che da scelte consapevoli di governo, dalla numerazione progressiva (prima, seconda, terza….).
Ma altri mutamenti sono in atto, l’attivazione dei cittadini nelle attività di interesse generale secondo il principio di sussidiarietà orizzontale disegna nuove mappe e nuovi scenari in cui prende corpo una democrazia matura segnata dall’impegno di tanti soggetti diversi tra loro e diffusi sul territorio che fanno un passo avanti e decidono di attivarsi nella cura dei beni comuni, ben oltre quelle che potevano essere le intenzioni che avevano portato alla riforma del Titolo V della Costituzione.
Gli Uffici per l’amministrazione condivisa
In questo scenario prende vita nel 2014 il Regolamento per l’amministrazione condivisa, che si regge su alcuni elementi essenziali tra cui la previsione della collaborazione con i cittadini quale funzione istituzionale dell’ente, attraverso l’individuazione di una unità organizzativa, un Ufficio dedicato alla costruzione della relazione con chi, in particolare, si propone per svolgere attività di cura dei beni comuni attraverso i Patti di collaborazione.
La scelta operata dal Regolamento, dunque, è stata quella di incardinare il principio di sussidiarietà dentro l’amministrazione sottraendola alla esclusiva volontà degli organi di natura politica per evitare che la sua applicazione fosse sporadica, occasionale, frutto di scelte in qualche misura particolari e non, invece, di carattere generale. La cura dei beni comuni, lo abbiamo ribadito più volte, non può essere un tema divisivo, un ambito di contrapposizione politica ma deve rappresentare un modo di essere delle istituzioni, fedele il più possibile allo spirito e ai principi della Costituzione repubblicana. E se guardiamo i numeri relativi all’adozione del Regolamento in oltre duecento comuni italiani sembra essere proprio così, perché quasi sempre è stato adottato all’unanimità o al massimo con un ristretto numero di astensioni.
La notizia è nel bicchiere mezzo pieno
La realtà, naturalmente, è più articolata e complessa di quella che può apparire dalla semplice lettura di questo dato. Dei comuni che hanno adottato il Regolamento il 60% circa ne ha implementato l’applicazione, cioè ha sottoscritto con continuità Patti di collaborazione e ha individuato l’Ufficio che gestisce la collaborazione con i cittadini.
Fra i comuni che in questi anni hanno adottato il Regolamento circa il 30% successivamente ha rinnovato gli organi elettivi, cambiando maggioranza. Di questi, il 60% ha smesso di applicare il modello dell’amministrazione condivisa, ma il restante 40% invece continua ad applicarlo con successo, stipulando Patti di collaborazione spesso anche molto interessanti quanto a contenuto e obiettivi.
Se si leggono questi dati nella prospettiva del bicchiere mezzo vuoto si mette in evidenza quel 60% di comuni in cui, pur avendo l’allora minoranza contribuito all’approvazione del Regolamento, diventata maggioranza non continua ad applicarlo. Ma non è una notizia, perché purtroppo nel nostro Paese c’è una consolidata tradizione che porta i nuovi arrivati al potere a cancellare o ignorare sistematicamente tutto quanto è stato fatto dai precedenti governanti, anche a costo, come in questo caso, di privare i cittadini di uno strumento prezioso per il miglioramento della qualità della vita di tutti. Per fortuna però quei cittadini sono anche elettori e al momento della successiva tornata elettorale hanno nel voto lo strumento con cui, volendo, possono “punire” chi ha impedito loro di prendersi cura dei beni comuni presenti sul loro territorio.
La notizia, invece, è nel bicchiere mezzo pieno, cioè nel fatto che l’amministrazione del 40% dei comuni in cui c’è stato un cambio (spesso radicale) di maggioranza, nonostante tale cambio continua a stipulare Patti di collaborazione, dimostrando così con i fatti che i beni comuni non sono né di destra, né di sinistra, sono di tutti. E che assumersi la responsabilità della loro cura, insieme con altri cittadini e con l’amministrazione, non è un’attività connotabile politicamente secondo le categorie del Novecento. E’ la cosa intelligente da fare, semplicemente.
Un dovere istituzionale
Sulla base di questi elementi qual è lo stato di salute del rapporto tra istituzioni e cittadini in relazione all’applicazione del principio di sussidiarietà? Una prima considerazione non può che essere quella relativa alla previsione di un Ufficio per la collaborazione con i cittadini, una scelta lungimirante del Regolamento possiamo definirla, innanzitutto perché rende più solido l’intero processo rispetto alle possibili interferenze. Nonostante l’eventuale volontà politica di segno opposto, infatti, il Regolamento resta norma vincolante per l’ente lasciando intatta la possibilità per ogni cittadino di adoperarsi in attività di interesse generale. La presenza di questi uffici appare, dunque, di importanza fondamentale per favorire una stabile forma di collaborazione tra istituzioni e comunità, non momenti episodici sottoposti alle scelte di natura politica. Del resto l’articolo 118 ultimo comma non rappresenta un semplice auspicio ma un preciso dovere che, attraverso il verbo favoriscono, impone a tutte le diverse articolazioni dello Stato l’adozione di ogni misura necessaria per rendere possibile l’attivazione dei cittadini attraverso attività di interesse generale.
Diverso approccio merita il discorso sul piano politico. Alla crisi di credibilità e consenso verso le forme tradizionali della partecipazione c’è chi risponde cercando di coniugare elaborazione teorica e concretezza, azione e idealità e chi cerca rifugio nella semplificazione populista che nasconde, invece di risolvere, i problemi reali in nome di un rapporto diretto, senza mediazioni tra chi esercita il potere e chi lo subisce in maniera spesso inconsapevole.
Fiducia, potere, responsabilità
Non basta adottare (anche all’unanimità) i Regolamenti sull’amministrazione condivisa se il cambiamento di paradigma resta un miraggio buono per gli slogan di ogni schieramento, nella speranza di contenere dentro lo schema della delega e della rappresentanza l’energia liberata dei cittadini. Di fiducia abbiamo bisogno. E di speranza. Per invertire le aspettative delle nostre comunità che, ogni giorno di più, vedono abbassare il proprio tenore di vita e crescere i livelli di povertà, assoluta e relativa. Eppure dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che la pretesa di assorbire dentro vecchi schemi le organizzazioni sociali per riscuotere consenso elettorale non costituisce più un patrimonio stabile e duraturo perché i timori di una società costretta a vivere nella precarietà e con la paura del domani si ripercuotono sugli stessi protagonisti della scena politica bruciando quelle che sembravano, solo un attimo prima, inespugnabili fortezze elettorali.
Ma su quelle nuove mappe che i cittadini attivi stanno costruendo in tutto il Paese attraverso l’esercizio della autonoma iniziativa prevista dalla Costituzione si potrebbe tracciare una nuova rotta, elaborare una nuova cultura politica in cui riconoscersi. E in questo senso la cura dei beni comuni non può costituire un tema divisivo che, attenzione, non significa negazione del conflitto, tutt’altro.
Lo stato del rapporto tra fiducia/potere/responsabilità, allora, può essere l’indicatore di un modello sociale e istituzionale capace di produrre benessere per le persone e le comunità nella misura in cui vengano offerti strumenti concreti, come lo possono essere il Regolamento e i Patti di collaborazione, che permettano loro di essere protagonisti a pieno titolo nella soluzione dei bisogni propri e delle comunità di riferimento.
Foto di copertina: Leanna Cox su Unsplash