In Italia, il volontariato rappresenta una realtà solida anche se in mutamento e segnata dall’emergenza sanitaria. È questa l'immagine che emerge dall'ultimo Report pubblicato dal sistema dei Centri di servizio per il volontariato e di cui abbiamo parlato con il presidente, Stefano Tabò

«Una sensibile crescita di singoli cittadini interessati e di volontari non legati stabilmente ad associazioni», è il segnale positivo che dà Stefano Tabò, presidente dell’associazione nazionale dei Centri di servizio per il volontariato (Csv). «Un segnale di conferma del graduale cambiamento del volontariato che osserviamo da alcuni anni: le organizzazioni tradizionali continuano ad essere un forte riferimento, anche ideale, ma aumenta la voglia di partecipazione spontanea e occasionale, magari legata a istanze momentanee e circoscritte. Forme di impegno non strutturate che poi, in molti casi, diventano più “formali”, in un continuo ricambio che – speriamo – si consolidi perché il rinnovamento e la freschezza sono parte dellessenza stessa del volontariato». Con lui abbiamo parlato a margine della pubblicazione del Report che riguarda la struttura e le attività dei Csv nel 2019, un anno di passaggio dal punto di vista normativo (la riforma del Terzo settore non è ancora entrata a regime) e interessato dall’emergenza sanitaria.

Appunto, presidente, Quanto ha influito la Pandemia? Avete potuto registrare gli effetti?

Nel luglio 2020 abbiamo realizzato un rapporto che ha messo insieme le voci dei dirigenti dei Csv e i risultati di alcuni sondaggi da essi svolti tra le associazioni del territorio in seguito alla prima fase della pandemia. Ne è emersa tra l’altro una straordinaria flessibilità del volontariato, una capacità di riconvertire rapidamente le attività in base ai nuovi bisogni emergenti, sia mantenendo dei servizi in presenza (le consegne a domicilio, ma non solo) sia utilizzando in modo creativo il digitale per essere vicini alla fasce di popolazione più in difficoltà, giovani e anziane. Una capacità che ha sorpreso perfino noi, ma va ricordato che questa emergenza non aveva precedenti, essendo l’unica che – al contrario delle calamità localizzate che periodicamente mobilitano i volontari – ha interessato davvero tutti.
È però innegabile che una parte consistente degli enti di Terzo settore, attraverso cui i volontari agiscono (dal 10 al 30% a seconda delle stime), sia stata messa in forte difficoltà dall’emergenza: non penso solo alle piccole associazioni che si sono trovate senza mezzi e senza sede, e che in molti casi hanno chiuso le attività, ma anche ad alcune più grandi che hanno faticato a riorganizzarsi. Senza contare che la prolungata indisponibilità dei volontari più anziani è stata devastante per quelle realtà che ne avevano molti al loro interno. In ogni caso i veri effetti a breve-medio termine sono ancora da quantificare e credo che si potrà farlo solo tra qualche mese.

Lei ha affermato: “La rete dei centri di servizio è una rete in salute, con tante nuove lezioni imparate nella pandemia”. Quali?

In quello stesso rapporto praticamente tutti i Csv hanno raccontato come sono riusciti ad adattare con tempismo i loro stessi servizi alla situazione: nessuno ha sospeso il suo impegno, molte attività (come la formazione, la consulenza, la comunicazione) sono addirittura cresciute in quantità. Ma ciò che più conta è l’aver constatato che in questi mesi i Csv siano stati percepiti, mai come in passato, come il riferimento a volte unico per l’impegno volontario a livello locale: ciò sia per le associazioni che, soprattutto, per un numero enorme di cittadini che finora non erano mai entrati in contatto col volontariato e che improvvisamente avevano molto tempo libero. Questa è stata la prima lezione imparata, ma anche la prima sfida per il futuro immediato: come “trattenere” il più possibile di questa massa di persone, come coinvolgerle in modo permanente in forme di impegno gratuito, anche leggero?
La seconda lezione riguarda il digitale: sia i Csv che tutto il Terzo settore non possono tornare indietro. Superando resistenze e diffidenze, abbiamo “scoperto” che il lavoro a distanza può consentire più efficienza, più risparmio e in molti casi non fa nemmeno perdere empatia e contatto umano. Certo il digitale non può sostituire tutto, il volontariato è rapporto diretto con le persone, è toccarsi, guardarsi negli occhi, scambiarsi emozioni: bisognerà essere abili a trovare forme miste di aiuto e di lavoro, ma senza perdere i benefici delle tecnologie che abbiamo sperimentato.
La terza lezione è nella frase di un direttore di Csv: “Nell’emergenza non si costruisce nulla”. Chi è stato più bravo in passato nel costruire reti e relazioni ha raccolto i frutti durante la pandemia. Chi ha provato a farlo sul momento è stato frustrato. Ciò vale in particolare per i rapporti con il pubblico e con il profit.

Fino a che punto le istituzioni a tutti i livelli, vi hanno ascoltato in questi mesi per attivare progetti seri di ricostruzione e quanto avete potuto incidere sulle strategie di lotta agli effetti devastanti della pandemia?

Con alcune regioni – come il Veneto, l’Emilia-Romagna, la Toscana e la Campania – sono stati stipulati protocolli che hanno riconosciuto le funzioni dei Csv nel fronteggiare l’emergenza: sensibilizzazione dei volontari, formazione, distribuzione di Dpi ecc. Lo stesso è avvenuto con singoli Comuni. Tuttavia, il nostro rapporto di luglio ha ancora una volta evidenziato come l’atteggiamento delle pubbliche amministrazioni verso il mondo del volontariato sia in parte considerevole di tipo strumentale, episodico, residuale; e spesso poco informato. I volontari sono visti, in questi casi, come pura manodopera (qualcuno ha usato persino l’espressione “utili idioti”), di cui servirsi all’occorrenza, ma mai in un rapporto di pari dignità e nell’ambito di un progetto costruito insieme. Non è così dappertutto, ovviamente, e rispetto al passato molto è cambiato o sta cambiando. Ed è appunto questo uno dei terreni di lavoro più impegnativi per i Csv negli anni a venire: aiutare il Terzo settore a creare connessioni e reti, a consolidare rapporti, a consolidare la presenza ed il ruolo dei volontari affinché siano più ascoltati e non solo “usati”.

Altra considerazione che emerge dal vostro Report è che “i Csv confermano quel grande impatto comunicativo che si è rivelato vitale per la circolazione di notizie e opportunità di volontariato in tutta Italia”. Bene: eppure spesso siamo costretti a valutare una scarsa considerazione dei media sull’operato di questo mondo. Sta cambiando qualcosa?

Molto lentamente… ma qualcosa sta cambiando. I Csv nel 2019 hanno rafforzato sensibilmente i loro mezzi di comunicazione e i servizi forniti alla associazioni in questo ambito. E ciò si è visto l’anno successivo, quando molti di loro sono riusciti a diventare degli autentici “hub” dell’informazione nel settore di competenza: come aiutare, a chi rivolgersi, quali sono le regole e i pericoli, chi fa cosa ecc. Riflettendo su ciò che è avvenuto durante la pandemia, i Centri riferiscono che l’attenzione dei media – soprattutto locali – al volontariato dopo i primi giorni di lockdown è stata quasi ovunque elevatissima. Si sono visti ancora i vecchi vizi della comunicazione nel rappresentare il volontariato – la retorica degli “angeli” e degli “eroi”, l’emozionalità, la scarsa comprensione di cosa c’è davvero dietro quelle azioni – ma si è vista anche una crescita di competenza, di autonomia del giornalisti nel distinguere, nel fare domande, nell’evitare l’enfasi, nell’andare oltre… Ciò in particolare nei confronti di quei Csv e di quelle associazioni, che hanno saputo, per così dire, anticipare i bisogni dei media: producendo contenuti, fornendo cifre e piste di approfondimento, in una parola diventando “fonte” essi stessi.

Infine, sulla cultura del volontariato: per tanti ancora domina l’idea che sia uno status limitato alle persone che hanno tempo e risorse (economiche e sociali) per poter dedicare tempo al di fuori del proprio mondo lavorativo. In che misura è una lettura scorretta e perché si è generata?

Chi associa l’immagine del volontario ad un preciso ceto sociale ignora – spesso volutamente – ciò che si può facilmente apprendere dalle ricerche che da decenni studiano la fenomenologia del volontariato nel nostro Paese. Ci sono fattori che influiscono sulla scelta di prestare gratuitamente il proprio tempo a favore degli “altri”. Tra questi certamente la serenità circa il sostentamento proprio e della propria famiglia. Ma l’elemento decisivo è di tipo culturale. Sono le motivazioni, e a monte quindi i valori della persona, che ne determinano la disponibilità.
Mi sono chiesto spesso la ragione del persistere di questa “lettura scorretta”. È una circostanza che non trova giustificazione al di fuori di un approccio ideologico che guarda ancora con sospetto alla presenza dei volontari perché intravede nella loro presenza una inopportuna sottrazione alle opportunità di lavoro ed una disfunzionale attenuazione delle energie vitali per contrapporsi alle cause delle ingiustizie del tempo presente. È venuto il tempo di arricchire anche questi sguardi, attingendo alla vita reale e prendendo finalmente atto dell’incisiva testimonianza che il movimento del volontariato sta offrendo. Anche questa è, almeno in parte, una sfida per i Csv.

Foto di copertina: Roman Synkevych su Unsplash