La montagna, maestra severa di pratiche comunitarie di cooperazione

Le montagne sfidano la nostra capacità di ascolto delle loro comunanze per tutto ciò che racchiudono e raccontano. Tendiamo a mirare l’obiettivo su singole parti per noi più evidenti: magari per la forza della loro tradizione, come quella delle proprietà collettive oppure, al contrario, per la loro novità, come nel caso delle cooperative comunitarie. Pesanti e sofisticati zoom dagli sguardi stretti e distanti. Andando dentro e a ritroso nella vita dei paesi con la nostra griglia di catalogazione di ciò che è pubblico, privato o comune potremmo confonderci presto, scoprendo che la montagna, severa fino alla difesa violenta delle cose per come erano assegnate dalla storia, era maestra poi di un fare comune quotidiano e molto più complesso. Le sue popolazioni sapevano infatti che non v’era scampo alla solitudine e ognuno poteva avere salva la vita solo facendosi gli uni i fatti degli altri. L’interesse individuale (che più propriamente avremmo dovuto dire familiare) voleva la vita spesa per la consegna di sé, incarnata in una terra, a un figlio o a una figlia ma erano pratiche comunitarie di cooperazione a renderla possibile. Ognuno degli abitanti delle montagne le agiva istintivamente, applicando la tacita conoscenza che nei loro contesti era privato il sopravvivere, ma il generare e il vivere interpellava dimensioni comuni. Intendersi “comunità di destino” è il primo insegnamento della montagna e interpella ancora la nostra razionalità.

Essere comunità ereditaria

Le montagne, per secoli, hanno vissuto come padre e madre per essere eredità di un figlio. Di norma, con riserva di fatti straordinari, era l’istituzione familiare, nella capacità di fare suo un patrimonio materiale (case e terreni) o immateriale (una competenza e un’abilità), a custodire questa tradizione. Da questa immagine traiamo le due seguenti argomentazioni. La prima riguarda l’intergenerazionalità e dobbiamo considerarla in tutta la portata relativa al tema dei beni comuni che qui ci interessa. È urgente recuperare tutta l’attualità del fine di consegna ad altri di ciò che abbiamo, non più a un cognome, dentro a una tradizione familiare chiusa, ma alla generazione che viene e ci adotta. La storia sarà di figli e figlie che adottano madri e padri, con la loro terra, scegliendo di nascervi, colmando il più grande cratere della storia. Un passaggio epocale di civiltà: una narrazione comune, intenzionale e gratuita. C’è forse una comunanza più profonda e decisiva di questa? Essere globalmente “comunità ereditaria” è il secondo insegnamento della montagna.

Farsi comunità ecosistemiche

La seconda argomentazione riguarda la buona confusione fra la sfera privata e il fare in comune. Tendiamo a disgiungere l’area dell’interesse privato da quella dei beni comuni o pubblici perimetrandole in luoghi e istituti specializzati. Essere nati in montagna o averne vissuto il quotidiano ci destabilizza. Non v’è foto in bianco e nero di un paese di montagna che non rappresenti scene/effetti biografici uniti a scene/effetti sociali, scene/effetti economici e scene/effetti di trasformazione urbanistica e del paesaggio, tutti strettamente correlabili fra loro, nello stesso tempo e nello stesso luogo.
Le aree incapaci di surplus produttivi (nelle quali economie circolari e senza sprechi erano necessarie a evitare la morte), dove ci si conosce per nome e ci si conta tutti i giorni, non si sono mai potute permettere questa scissione. Qui non si può fare teoria sulla differenza fra crescita e sviluppo, perché sulla necessità del vivere bene tutti e insieme non si può discutere nemmeno un giorno. Lo stesso vale per la distinzione fra pubblico e privato, perché le cure e le responsabilità dovute da tutti indistintamente alle case e alle cose non discendono dalla titolarità di queste ma più semplicemente dalla loro utilità. Farsi “comunità ecosistemiche per ciò che serve” è il terzo insegnamento della montagna.

Trebbiatura della Comunità cooperativa di Costabona – Reggio Emila, appenino tosco-emiliano (Fonte: Giovanni Teneggi)

Assicurarsi comunità mutualistiche

Prima di proprietà collettive e spazi pubblici possiamo dunque individuare nella competenza di comunità il patrimonio comune delle popolazioni di montagna. Era esercitato istintivamente come collante necessario alle scene (in bianco e nero) che abbiamo già citato e, seppure comune, trovava spazio dentro alle sfere private di famiglie e imprese. Questa compenetrazione fra attività cooperative comuni e sfera individuale va sottolineata per la sua grande rilevanza e per la forza dell’immagine che restituisce alla nostra attualità. Possiamo specificarla con almeno tre comportamenti ravvisabili nella quotidianità comunitaria delle montagne prestatuali e preindustriali.
Il primo è nella partecipazione comune alla vicenda economica individuale. Reciprocità cooperative univano persone di famiglie diverse nelle attività di trasformazione delle materie prime prodotte a casa di ciascuno. Che fosse per l’ultimo taglio e lo spacco della legna prima del suo immagazzinamento autunnale, per la lavorazione della carne del maiale nel corso dell’inverno o per la battitura estiva del grano (solo per rappresentare tre pratiche comuni alle popolazioni dell’Appennino Tosco-Emiliano), l’aia di una famiglia si animava del lavoro di altri clan.
Il secondo è nell’aiuto collettivo alla vita individuale, come bene interessante per tutti, di fronte a una calamità naturale. Tutti andavano in soccorso a singoli componenti della comunità a rischio o già vittime di un pericolo.
Il terzo è nelle reti di accoglienza e sostegno dei fenomeni migratori e di sconfinamento (anche di contrabbando). Si trattava di reti mutualistiche e aiuto reciproco fra chi restava sui territori (nella particolare e lungimirante intraprendenza delle donne) nell’attesa di chi migrava.
Un’annotazione a margine la possiamo dedicare alla storia di una montagna densa di mutualismi, filiere e sconfinamenti più di quanto oggi la rappresentanza di quelle stesse montagne sappia dire e proseguire.
Assicurarsi “comunità mutualistiche” è il quarto insegnamento della montagna.

Le comunità (ir)riducibili

Insieme a fatti privati di tradizione familiare e a quelli comuni di mutualità, il sistema istituzionale montano era completato da almeno due altri elementi di uguale rilevanza: le gestioni collettive di alcuni beni fondamentali (in particolare il legnatico e l’acqua) che abbiamo già richiamato e le ritualità sociali.
Con ciò possiamo concludere che la cittadinanza in questi luoghi era strettamente collegata, in ciascuno e collettivamente, alla partecipazione di tutti ai meccanismi e agli istituti di costruzione comunitaria:

  • cura e crescita del patrimonio materiale e immateriale presente alla comunità, pubblico e privato (per la continuità intergenerazionale);
  • pratiche comunitarie di trasformazione (per la maggiore efficienza nella generazione in valore);
  • gestione collettiva di risorse fondamentali (per la prevenzione di conflittualità nella garanzia di un’equa accessibilità)
  • esercizio di ritualità sociali (per la capacitazione e la conferma della comunità).

Nessuno di questi fattori, a differenza di ciò che pare affermarsi oggi, poteva assicurarsi senso e sostenibilità se non in stretta relazione con gli altri e con affidamento comune alla loro reciproca realizzazione. Aspirazioni individuali, pratiche di cooperazione, gestioni collettive, ritualità sociali sono parti coessenziali di un eco-sistema comunitario effettivo, non frammentabile e non delegabile.
Agire “comunità (ir)riducibili” è il quinto insegnamento della montagna.

Determinare comunità istituenti

Il patrimonio di sapere comunitario delle montagne è attuale. Apporta un contributo originale al grande dibattito sull’idea/bisogno/opportunità del comune e indica ciò che è necessario ancora oggi ai territori rarefatti (forse a tutti) per riprendere una storia. Richiama un’urgenza re-istituente.
L’“istituire” è l’attitudine più gravemente smarrita dagli agenti politici, sociali ed economici. È venuta peraltro a mancare alla stessa azione pubblica territoriale che tende ad essere dominata dal mainstream della sola scala dimensionale come criterio di efficienza. Gli obiettivi di unificazione degli enti locali e di privatizzazione delle aziende municipalizzate, fino alla loro consegna al mercato finanziario – solo per citare due “riforme” ancora in corso -, non sono stati accompagnati a nuove modalità di prossimità istituzionale. Una razionalità strumentale neutralizzante la capacità territoriale di germinare rappresentazione e partecipazione orizzontale. La traduzione di cittadinanza in voice e accesso prestazionale (in alcuni casi addirittura in remunerazione), privata di istituzioni accessibili, rispondenti e visibili (municipi, ospedali, scuole, acquedotti, foreste, parchi, ecc…) è un fenomeno da fronteggiare con azioni dal tenore ancora controintuitivo. Determinare “comunità istituenti” è il sesto insegnamento della montagna.

L’insegnamento definitivo

Veniamo quindi alle ultime e concludenti dimensioni del patrimonio comune delle montagne. Mi riferisco a quella spaziale delle architetture insieme a quella pedagogica degli apprendimenti: non deve stupire il metterli insieme. Occorre riprendere la costruzione di case e cose belle, fruibili, utili e produttive di un insegnamento consapevole. Per questo richiamo è sufficiente l’immagine del Forno comunitario di Usseaux, nella Val Chisone di cultura valdese fra Torino e Sestrière. Il suo regolamento disponeva, oltre a regole costruttive e tecniche di sostenibilità e circolarità, che il primo pane, più buono e croccante, fosse riservato ai bambini che dovevano assistere nel gioco e nel piacere alla preparazione del forno e alla cottura comune del pane. Comunità urbane, belle e pedagogiche. L’insegnamento definitivo delle montagne.

Giovanni Teneggi lavora per Confcooperative allo sviluppo della cooperazione di comunità in Italia.

Foto di copertina: Disegno realizzato da Giovanni Teneggi