Recensione del volume "La città informale. Approcci teorici"

Il volume dal titolo “La città informale. Approcci teorici”, curato da Maria Vittoria Ferroni e Giovanni Ruocco, entrambi Professori presso l’Università di Roma “Sapienza”, e con i contributi, in ordine alfabetico, di Rossana Galdini, Fabio Giglioni, Pierluigi Montalbano, Francesco Palumbo ed Antonio Putini, mira ad indagare il tema dell’informalità in rapporto con il diritto. Un tema caro soprattutto alla teoria generale, proprio in quanto critico: la categoria dell’informalità, infatti, è causa di fibrillazione delle categorie giuridiche, per le quali la formalità assume invece caratteri sostanziali e il suo difetto può tradursi finanche in nullità.

Il pluralismo degli ordinamenti giuridici

Un rimedio alla necessità di certezza e ordine che caratterizza il diritto, il quale sembra in apparenza aborrire il regno dell’informalità, fu offerto a suo tempo dal ragionamento di Santi Romano, la cui teoria – eminentemente composta nel suo “L’ordinamento giuridico” del 1918 – chiarì come sia possibile ritrovare tracce del diritto anche al di fuori delle categorie giuridiche riconosciute in un dato momento storico: assumendo, infatti, che ubi societas, ibi ius, Romano insegnò che può individuarsi un ordinamento giuridico in ogni organizzazione che promani dalla società e abbia al contempo anche i caratteri dell’istituzione, con ciò inaugurando la fondamentale prospettiva del pluralismo degli ordinamenti giuridici.
La nostra Repubblica, in quanto democratica, con il complesso delle sue finalità e dei suoi principi costituzionali promette di dare piena verificazione alla teoria pluralista; a questa promessa concorre, a ben vedere, anche la categoria dell’informalità. Con la riforma del Titolo V della Costituzione, avvenuta come noto con l. cost. n. 3 del 2001, l’art. 118 è stato arricchito dell’ultimo comma, ai sensi del quale «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà». La categoria giuridica dell’autonomia può essere ritenuta la più coeva a quella dell’informalità, rectius della forma libera. Le attività di interesse generale oggetto del principio di sussidiarietà orizzontale promanano, quindi, dall’iniziativa autonoma dei cittadini, la quale può realizzarsi in forma libera, purché con salvezza delle leggi imperative vigenti e della meritevolezza degli interessi; in tal senso muove il canone costituzionale.

Le città: attrici della trasformazione della formalità giuridica

Il volume in commento – frutto del progetto di ricerca “Cities in Transition, Urban Regeneration, Civic Engagement and Institutions” elaborato dal Laboratorio Comune Condiviso (LabComCon) dell’Università di Roma “Sapienza” –, individua i punti di contatto tra diritto e informalità nel particolare ambiente sociale delle città: i contesti urbani, infatti, costituiscono la principale fonte dei mutamenti del diritto pubblico contemporaneo e l’analisi mostra, in tal senso, come all’origine dell’evoluzione del diritto della città vi siano proprio importanti fenomeni caratterizzati da informalità.
Lo studio, come chiarito da M.V. Ferroni e G. Ruocco nel primo capitolo dal titolo “L’informalità: una difficile qualificazione”, adotta un metodo interdisciplinare avente «l’obiettivo di sviluppare un’analisi multifocale del tema dell’informalità urbana, sotto il profilo sociologico, politologico, giuridico ed economico» (p. 7) e indaga, quindi, le città informali intese quali «particolare “livello” degli insediamenti urbani, in cui prendono forma azioni sociali individuali e collettive che hanno per oggetto beni e servizi e che muovono da logiche di solidarietà, reciprocità e gratuità» (p. 8), con la premessa logico-giuridica che «il riconoscimento del valore dell’informalità nasce dal superamento dell’idea che questa sfera delle relazioni umane sia relegata dal diritto nell’area dell’irrilevanza (…) o dell’illiceità, valorizzandone così le potenzialità giuridiche» (p. 9).
L’analisi sociologica, compiuta anzitutto dalla Galdini nel secondo capitolo dal titolo “Informalità ed evoluzione dello spazio urbano”, conferma la necessità di un muovere oltre il presunto rapporto binario tra formale e informale, i quali invece convivono nella concretezza degli ambienti urbani: le pratiche informali, infatti, non solo «si riferiscono ad azioni promosse dai cittadini per soddisfare bisogni individuali e collettivi disattesi dalle istituzioni», ma «come forme di autorganizzazione della collettività capaci di influire sull’attività sociale delle istituzioni, sono fonte di attivazione di capitale sociale e di innovazione sociale» (pp. 15-16). L’alterità tra diritto e informalità è quindi più apparente che concreta, e anzi «l’informalità urbana, ormai ampiamente diffusa come modalità emergente di city making, pone delle riserve rispetto ai processi di pianificazione, che continuano ad avere come punti di riferimento teorie e tecniche astratte, insensibili alle dinamiche locali, sociali e spaziali» (p. 22).
L’interpretazione socio-politologica della città informale prosegue nel terzo capitolo, ad opera di A. Putini e dal titolo “Azione collettiva, spazi urbani e beni comuni: il concetto di informalità in una prospettiva sociologica”. L’analisi attiene al carattere informale con cui si formano e dispiegano i movimenti e le azioni sociali collettive nel contesto urbano; descrive la città informale come «abitata da individui e gruppi che si attivano sulla base di bisogni in forme non organizzate giuridicamente (scarsamente se non affatto istituzionalizzate), producendo e intessendo legami fluidi fissati in labili criteri di membership, tali da rendere permeabile, inclusivo e dinamico l’accesso al gruppo e la compartecipazione all’azione» (p. 46). L’esempio dei Beni comuni urbani, intesi come «fenomeno di re-impossessamento informale della città da parte dei suoi abitanti» (p. 49), ha visto gli importanti casi di riconoscimento formale rappresentati dalle città di Bologna e Napoli: tale riconoscimento però, al contempo, fa sì che «la dimensione dell’informalità viene, in entrambi i casi, compressa, (…) ma l’intera esperienza collettiva viene ‘registrata’ e inquadrata in una cornice giuridica formale» (p. 50).
Se è vero che l’attrazione delle azioni collettive nell’orbita della formalità comporta una perdita dei caratteri informali originari delle stesse, è vero altresì, al contempo, che anche il diritto e le categorie giuridiche codificate mutano con l’assorbimento di dette azioni e si arricchiscono di nuove formule, dando una dimensione di effettività al pluralismo democratico; l’informalità, in tal senso, rivela la sua funzione innovatrice della formalità giuridica, la quale non può – per la sua stessa origine sociale – resistere ai mutamenti della società.
L’analisi politologica getta però anche una luce critica sulla città quale soggetto realizzatore del pluralismo democratico e sul ruolo crescente dell’informalità nella dimensione attuale della crisi della democrazia: nel quarto capitolo, dal titolo “Informalità e innovazione democratica: il laboratorio politico urbano”, si afferma con chiarezza che mentre il modello democratico attuale «appare (…) in grande affanno, soprattutto a causa della globalizzazione e dell’aumento della complessità e dell’esigenza di sempre maggiore rapidità dei processi decisionali, fattori che tendono a rendere per certi aspetti obsolete tanto la soggettività statuale, quanto il principio stesso della sovranità popolare», al contempo «la democrazia sembra evocare oggi soprattutto un valore sociale, positivo e ampiamente condiviso» (p. 69). L’informalità può quindi supplire alla crisi in atto delle forme istituzionalizzate, costituendo anzi una fonte imprescindibile per l’innovazione del diritto.

Il principio di sussidiarietà orizzontale quale connettore tra diritto e informalità

La riflessione giuridica sull’informalità, compiuta in prima analisi con il quinto capitolo di F. Giglioni, dal titolo “Il valore giuridico dell’informalità per l’interesse generale. L’esempio delle città”, descrive i fenomeni di pacifica convivenza tra informalità e diritto attraverso una rosa di cinque modelli principali: il modello della tolleranza, del riconoscimento, della qualificazione giuridica innovativa, dei Patti di collaborazione e del riuso dei beni in transizione; tale categorizzazione mostra che «ciò che emerge in queste situazioni è un’apertura dell’ordinamento verso le esperienze sociali che seguono percorsi irrituali, che non si risolvono con la prevalenza del diritto formale sull’informalità» e conferma come sia proprio il principio di sussidiarietà orizzontale a offrire alle stesse un «contributo unificante» (p. 87): tale principio, infatti, ha “forza nomogenetica”, in grado «di ricucire l’informalità con il diritto formale in modo originale» (p. 88). Messa a fuoco sul contesto delle città, la lettura giuridica vede le stesse quali istituzioni particolarmente adatte alla conciliazione tra diritto e informalità, per un triplice ordine di ragioni: il collegamento con il territorio e il naturale superamento dello stesso in termini di influenza; «la capacità delle città di sviluppare indirizzi politico-amministrativi anche in modo orizzontale e transnazionale» e, da ultimo, la loro natura di «ordinamenti complessi che, sia pure nei limiti dell’ordine costituzionale, sono in grado di produrre fonti autonome» (pp. 90-91). A fronte del riconoscimento del ruolo giocato dall’informalità nell’evoluzione del diritto della città, è al contempo necessario aver chiari i suoi rischi: tra questi, si evidenziano soprattutto “l’arretramento dell’amministrazione”, “la sovraesposizione del piano politico a spese di quello amministrativo”, gli aspetti distorsivi connessi alla “valorizzazione comunitaria del diritto”, nonché la giusta “tutela del principio di uguaglianza”.
L’analisi giuridica mostra, in ogni caso, la positività di esperienze informali quali esempi virtuosi di supporto all’azione amministrativa: il sesto capitolo, ad opera di M.V. Ferroni e dal titolo “Il riuso dei beni confiscati alla criminalità organizzata: come rendere formale l’informale”, chiarisce «le potenzialità di un particolare modello di informalità che consente di trasformare i beni frutto di attività illecite (beni confiscati alle mafie) in beni comuni curati dalla collettività e dalla pubblica amministrazione (soprattutto il Comune) per il perseguimento dell’interesse generale» (p. 95). A fronte di un percorso normativo importante – e certamente non breve – per la disciplina della confisca dei beni appartenenti alla criminalità organizzata, inaugurato con la legge Rognoni-La Torre n. 646 del 1982, proseguito con la fondamentale l. n. 109 del 1996 sul riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati, nonché, da ultimo, con l’istituzione nel 2010 dell’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata e la codificazione delle leggi antimafia avvenuta con d. lgs. n. 159 del 2011, il procedimento di confisca si caratterizza per un regime temporale piuttosto lungo, durante il quale i beni vanno necessariamente incontro ad ammortamento. Per sopperire a tale eventualità, «le recenti normative appaiono favorire la possibilità di assegnazione sin dalla prima fase» (p. 100), ossia quella della confisca di primo grado; ma soprattutto nel contesto dell’assegnazione definitiva dei beni confiscati, «la cui finalità è scegliere il soggetto migliore che possa permettere un riuso dei beni nell’interesse della collettività», il ruolo dell’informalità può essere determinante in presenza di un Patto di collaborazione stipulato dal soggetto destinatario dell’assegnazione definitiva (ossia il Comune, la Provincia, la Città Metropolitana o la Regione, ai sensi dell’art. 48, c. 3, lett. c) del d. lgs. n. 159 del 2011) per la gestione condivisa dei beni: il soggetto assegnatario, infatti, «potrebbe attestarsi come soggetto destinatario della gestione del bene confiscato, ma essere coadiuvato in tale azione da un gruppo di cittadini, associazioni, fondazioni, enti del terzo settore» (p. 104).

L’informalità nell’analisi economica: il valore dei c.d. fattori intangibili

Il capitolo conclusivo, redatto da Montalbano e Palumbo, dal titolo “Il ruolo dei ‘fattori intangibili’ per lo sviluppo locale: indicazioni di policy e primi indicatori per la valutazione”, indaga la valorizzazione economica dei c.d. beni relazionali, laddove si registra che «un clima generalizzato di fiducia interpersonale, elevata partecipazione a reti associative e diffusa cultura civica possano contribuire ad accrescere la coesione sociale, l’efficienza delle politiche pubbliche ed un minor costo delle transazioni economiche in grado di accrescere il benessere individuale» (p. 111). In generale, i fattori intangibili «sono (…) beni pubblici nel senso che non sono forniti spontaneamente dal mercato bensì richiedono politiche di supporto pubblico» (p. 118), come tali giocano un ruolo attivo nella costruzione della sostenibilità dello sviluppo locale. L’indicazione proposta dalla lettura economica è quindi «estrarre valore aggiunto da (‘valorizzare’) tali esternalità sociali che, per definizione, non passano per i meccanismi di mercato e non hanno quindi un prezzo» (p. 120), con il definitivo abbandono della logica contraria alla loro valutazione in termini economici. La capacità di incisione delle politiche pubbliche nella valorizzazione dei fattori intangibili può essere misurata attraverso specifici indicatori, relativi alla “cittadinanza attiva” (p. 124), alla “rappresentatività del partenariato” (p. 126), alla “gestione integrata degli asset locali” (p. 126), alla “dimensione della sostenibilità” (p. 129).

L’informalità: forza propulsiva del diritto

La lettura dell’importante volume in commento permette di comprendere, anzitutto, la natura più apparente che reale del conflitto tra informalità e diritto, come dimostrato dalla loro osmosi nel contesto delle città, ossia l’istituzione sociale per definizione. Nel contesto urbano, come si è visto, formalità giuridica e informalità hanno precisi e crescenti punti di contatto, che segnano le tappe della trasformazione del diritto pubblico e amministrativo, soprattutto alla luce del principio di sussidiarietà orizzontale. Non solo: il principio della sussidiarietà orizzontale fa sì che i cittadini siano essi stessi autonomi promotori e realizzatori del pluralismo democratico; in tal senso – e questo appare come il monito più importante del volume – la cittadinanza attiva è un’assunzione di responsabilità civica e politica. Si può dire che tale principio abbia quindi dato nuova linfa all’informalità, riconoscendole dignità in quanto forza propulsiva dell’innovazione giuridica: in tal modo, il diritto conferma la sua natura di scienza sociale, come tale osservatore necessario del dinamismo della società, ancorché collocato al di fuori dei tracciati giuridici.

Foto di copertina: Immagine sulla copertina del volume “La città informale. Approcci teorici”, M.V. Ferroni, G. Ruocco (a cura di), Castelvecchi, Roma, 2021.