Il significato più profondo di "frontiera" è quello dell’incontro e dell’accoglienza. Ed è lì che è bello ritrovarsi, in quello spazio in cui ciascuno è benvenuto

Esiste un limite superato il quale diventa difficile, se non impossibile, costruire ponti e non muri in quei territori dove rabbia e risentimento sembrano l’unica risposta possibile alla solitudine, alla paura, alla precarietà? Esiste una progettualità politica che non ricerchi il consenso cavalcando quella rabbia?

I muri e la globalizzazione

Un mondo senza confini era la promessa della globalizzazione ma frontiere e muri, invece, sembrano moltiplicarsi. Secondo un rapporto pubblicato nel 2020 dal centro studi Transnational Institute (Tni) nel mondo sono stati costruiti 63 muri negli ultimi 50 anni, 14 solo nel 2015, per un totale di un migliaio di chilometri circa. Erano solo 15 alla fine del secondo conflitto mondiale. Anche nell’Europa di Schengen sembra che beni e capitali abbiano più libertà delle persone visto che tra i 27 Stati membri dell’Unione almeno 10 hanno costruito barriere sul loro territorio come tra Bulgaria e Turchia, tra Cipro e Turchia, tra Austria e Slovenia, per citare alcuni esempi. Solo pochi mesi fa una lettera firmata dai ministri dell’Interno di 12 paesi addirittura chiedeva alla Commissione Europea di finanziare la costruzione di barriere con fondi europei. Non solo. Nascono muri e barriere anche nelle grandi metropoli per dividere i residenti, quasi sempre i ricchi dai poveri. Del resto, come affermato da alcuni esponenti della commissione europea, i paesi membri non possono impedire i viaggi, possono però scoraggiarli.

Cos’è la frontiera?

E allora qual è oggi il significato del termine frontiera? “Per molti è sinonimo di impazienza, per altri di terrore. Per altri ancora coincide con gli argini di un fortino che si vuole difendere. Tutti la mettono in cima alle altre parole, come se queste esistessero unicamente per sorreggere le frasi che delineano le sue fattezze”, così la descrive Alessandro Leogrande e aggiunge “La frontiera corre sempre nel mezzo. Di qua c’è il mondo di prima. Di là c’è quello che deve venire” (A. Leogrande, La frontiera, Feltrinelli Ed., 2015).
La difesa della frontiera, più che espressione di un potere, è l’emblema del suo fallimento. Si avverte la necessità, ancora di più nell’epoca della pandemia, di riscoprire che “il confine non è un luogo dove il mondo finisce, ma quello dove i diversi si toccano e la partita del rapporto con l’altro diventa difficile e vera” (Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, 2021). Le parole di Leogrande e Cassano allargano la riflessione, frontiera e confine tornano al loro significato etimologico e assumono un valore politico che muta il concetto stesso di cittadinanza, non più un tratto distintivo tra chi è dentro e chi è fuori – tra chi è tutelato e chi non lo è – ma un processo inclusivo e sempre aperto, capace di rendere la rivendicazione sociale motore di cambiamento. Ecco, allora, che le fratture sociali nelle nostre comunità, rese ancora più evidenti dalla pandemia, rappresentano l’ultimo mattone di quei muri che separano stati e regioni. La manifestazione del potere rappresentata dalla costruzione di muri e barriere è la stessa che, alla fine, porta a concepire il rapporto tra istituzioni e cittadini come inevitabile contrapposizione tra poli opposti e confliggenti.

Il valore locale e globale della cura

Se gli effetti di scelte che appaiono così lontane arrivano a toccare la vita quotidiana di ognuno di noi, non è detto che a prevalere debbano essere l’impotenza e la rassegnazione. Come? Attraverso la cura dei beni comuni. Un’azione che ha un valore locale e globale al tempo stesso, perché anche il più piccolo gesto di cura non ha mai un impatto limitato al nostro quartiere, alla nostra città, ma investe il Paese, l’Europa, l’intero pianeta.
È questo lo spazio di frontiera che Labsus, da oltre 15 anni, ha scelto di abitare. Insieme a tanti compagni viaggio, alcuni più vicini altri ancora diversi e lontani ma sempre guidati dalla volontà di costruire relazioni, a volte anche difficili ma sempre vere. Oggi Labsus, consapevole delle sfide che il nostro tempo pone dinanzi a ciascuno di noi, è impegnato nella definizione di un nuovo equilibrio tra il servizio a cittadini, amministratori pubblici, funzionari, soggetti privati e del privato sociale per consolidare e sperimentare in campi nuovi l’Amministrazione condivisa e la definizione di un modello organizzativo che, conservando quelle caratteristiche di informalità, fiducia e trasparenza, sia capace di interpretare in chiave contemporanea il proprio ruolo di soggetto del Terzo settore. In una parola vuol dire, ancora, essere accoglienti perché per noi quella frontiera rappresentata dalla cura dei beni comuni è, inevitabilmente, uno spazio di condivisione e non di chiusura.
Ricerca, formazione e accompagnamento, comunicazione rappresentano non solo gli ambiti tradizionali di lavoro dell’associazione ma anche un patrimonio di studi, esperienze, conoscenze, sperimentazioni, approfondimenti che appartengono non solo a Labsus ma a tutta quella rete attiva nel Paese, dalle grandi città ai piccoli centri, dal nord al sud dell’Italia. Protagonisti sono studiosi ed esperti ma anche semplici cittadini e amministratori volenterosi, gruppi informali e organizzazioni più strutturate le cui storie oggi arricchiscono una preziosissima banca dati, unica in Italia.

La comunità di Labsus

Tante di quelle storie hanno punti di contatto e affinità, ma anche nodi critici da scogliere e ancora aree di sviluppo da praticare. Immaginiamo quanto possa essere importante favorire incontri, scambi, relazioni, riflessioni comuni. Quanto può risultare determinante, come è accaduto, che realtà associative, amministratori locali e funzionari di Bagheria, Trento e Ivrea possano riflettere insieme su come fare di un teatro un esempio di gestione condivisa e, quindi, su cosa significa oggi definire le politiche culturali nelle nostre città. Perché un Patto di collaborazione non è fine a se stesso, ha senso se l’azione comune di cittadini e istituzioni contribuisce a definire le politiche pubbliche, non attraverso dichiarazioni di principio ma nella fatica della sperimentazione quotidiana e della costruzione di relazioni. Immaginiamo cosa può significare per il nostro Paese una rete capillare, diffusa, orizzontale, che mette in comune un modello che fa dell’azione di cura la precondizione essenziale per uno sviluppo economico, sociale e culturale a misura d’uomo. L’emergenza sanitaria e la necessaria ricostruzione (anche etica) del nostro Paese ha reso ancora più evidente l’importanza dell’Amministrazione condivisa. Quell’idea per cui le istituzioni e i cittadini possono perseguire determinati obiettivi solo come alleati diviene oggi centrale per evitare che i fondi del PNRR divengano l’ennesima occasione sprecata. Forse l’ultima.

Gli ambiti di intervento

Un’alleanza orizzontale tra istituzioni pubbliche, privati, soggetti del terzo settore, gruppi informali e singoli cittadini attivi diventa essenziale per almeno tre ambiti di intervento:

  • La definizione condivisa di efficaci politiche di welfare attraverso la costruzione di servizi ibridi intesi come beni comuni e non solo come servizi pubblici. Perché possano rispondere ai bisogni e alle esigenze di una intera comunità e siano generativi da un punto di vista sociale ed economico. Non sostituzione dei compiti istituzionali da parte dei cittadini attivi, dunque, ma valorizzazione delle competenze diffuse e consolidamento delle reti sociali di riferimento.
  • Il riuso degli edifici dismessi e in stato di abbandono attraverso i Patti di collaborazione complessi e le altre forme di gestione condivisa. Scuole, chiese, beni culturali in stato di abbandono, caserme dismesse possono essere riutilizzati e messi a disposizione di tutta la comunità. I patti ne regolano anche la dimensione economica, disponendo che quanto ricavato dalla gestione debba essere reinvestito per i soli fini definiti nel patto. Una riflessione a parte meritano, poi, i percorsi (tortuosi) di riutilizzo dei beni confiscati alle mafie secondo uno schema tradizionale e bipolare, che devono invece facilitare e mobilitare gli attori del territorio per integrare tra loro sviluppo, legalità e coesione sociale.
  • Infine, la scuola, la principale infrastruttura sociale del Paese ridotta a terreno di scontro tra opposte fazioni dove, però, grazie a dirigenti scolastici illuminati e cittadini attivi, sta crescendo un modello alternativo che non sminuisce l’importanza dell’istruzione come bene pubblico, ma ne allarga i confini sino a renderla bene comune che tutti sono invitati a sostenere attraverso l’apertura a forme di collaborazione con la comunità scolastica e territoriale che condividono doveri e responsabilità. Non a caso l’art.34 della Costituzione recita “La scuola è aperta a tutti”, e questa affermazione già di per sé rappresenta un valore e fa la differenza.

Auguri!            

La storia dell’umanità ci insegna che le frontiere sono fatte per essere superate, artificiali o naturali che siano, materiali come può essere un muro o invisibili come quelle culturali, religiose, politiche. Il suo significato più profondo resta quello dell’incontro prima e, quindi, dell’accoglienza ed è lì che è bello ritrovarsi, in quello spazio in cui ciascuno è benvenuto.

Buon anno ai nostri compagni di strada da tutti noi di Labsus!