Intervista a Ana Méndez de Andés e David Hamou, autori di "Códigos Comunes Urbanos. Herramientas para el devenir-común de las ciudades"

Continua il nostro viaggio alla ricerca di possibili declinazioni del modello di Amministrazione condivisa. Esploriamo questa volta la prospettiva spagnola, confrontandoci con Ana Méndez de Andés e David Hamou, coordinatori del progetto di ricerca “Códigos Comunes Urbanos” e curatori dell’omonima pubblicazione che accende i riflettori sugli strumenti giuridici per la gestione condivisa dei beni comuni in Spagna.

Ana, David, ci raccontate com’è nato questo progetto? Da quali ipotesi siete partiti?

A: “Códigos Comunes Urbanos” prosegue il lavoro di ricerca che abbiamo realizzato all’interno dell’Observatorio Metropolitano de Madrid, uno spazio di riflessione sulle trasformazioni urbane nato per fornire ai movimenti sociali le conoscenze teoriche e gli strumenti pratici per affrontare le sfide delle metropoli contemporanee.
Nel 2009 l’Osservatorio pubblica il ‘Manifiesto por Madrid’ guardando alle esperienze collaborative che stavano emergendo spontaneamente in città per rispondere alla crisi – i centri sociali occupati, gli orti comunitari, le banche del tempo – e raccontandole come ‘beni comuni emergenti’.
Due anni dopo, La carta de los comunes de la ciudad de Madrid’, in linea con le istanze del movimento del 15M, evidenzia la portata politica dei beni comuni urbani, mettendone in luce il potenziale in termini di redistribuzione del potere decisionale e accesso democratico alle risorse collettive.

D: Uno degli obiettivi del libro era proprio ri-politicizzare il dibattito sui beni comuni. Se a livello macro, la produzione teorica si è concentrata soprattutto sulla natura politica e ontologica del concetto di bene comune, a livello micro, le esperienze concrete cominciavano a prendere corpo, ma rimanevano casi studio isolati.
La nostra analisi sposta l’attenzione sul livello meso, a metà tra formalizzazione della pratica e applicazione della teoria, in cui le pratiche di commoning formano parte di un sistema sociale più ampio. Volevamo ribadire che i beni comuni non sono solo una terza via che si inserisce nel dualismo tra pubblico e privato, ma un agente di cambiamento in grado di modificarne logiche e paradigmi.

Operativamente, come si amplificano, connettono e replicano le singole esperienze nell’ambito di un progetto di trasformazione più ambizioso?

A: La visione dei beni comuni come orizzonte di trasformazione politica richiede, nella pratica, un cambio di paradigma istituzionale e un rinnovamento degli strumenti giuridici.
Quando ho iniziato a lavorare come consulente per il Comune di Madrid [all’interno della Giunta municipalista di Manuela Carmena, 2015-2019] ho capito di aver bisogno di cornici istituzionali per concretizzare idee altrimenti molto astratte e trasformarle in strumenti amministrativi.
A settembre 2016 abbiamo organizzato presso il Medialab-Prado un ciclo di conferenze strutturate come un laboratorio di sperimentazione giuridica. Abbiamo invitato funzionari pubblici che stavano lavorando concretamente all’elaborazione di regolamenti e proposte normative per la gestione condivisa dei beni comuni.
Abbiamo poi coinvolto attori sociali, istituzionali e accademici di diverse discipline (sociologi, antropologi, politologi, giuristi ed urbanisti) in una serie di appuntamenti internazionali per riflettere insieme attorno alla categoria giuridica dei beni comuni urbani, ridefinendone i confini sia aggiornando le fonti normative esistenti che disegnando ‘nuove norme’.

Perché codificare i beni comuni? Quali sono i rischi connessi all’istituzionalizzazione delle pratiche?

A: Poco prima delle elezioni amministrative del maggio 2015, abbiamo organizzato un seminario intitolato “Devenir común de lo público, devenir institución de lo social. Credo che si debba superare la visione dei beni comuni come qualcosa che “appartiene a tutti e a nessuno”, gestito da una comunità che spontaneamente trova obiettivi comuni intorno ai quali organizzarsi. Non è questa la realtà delle cose. I beni comuni ‘tradizionali’ sono sempre stati altamente codificati. Esistono regole, norme ed è proprio la mancanza di norme ciò che li fa cadere nella “tirannia dell’assenza di struttura” di cui parlava Jo Freeman negli anni Settanta.
Guardiamo allora al diritto per la sua capacità di aiutare i processi spontanei a diventare pratica (in)comune. Al tempo stesso, quelli che nel testo chiamiamo “códigos comunes” sono strumenti giuridici che producono immaginari e azioni reali capaci di trasformare ciò che intendiamo come ‘pubblico’ in ‘comune’. Questa riflessione sta al centro del nostro lavoro.

D: Il rischio di istituzionalizzazione esiste, siamo consapevoli del pericolo di cooptazione, disattivazione e burocratizzazione delle pratiche informali. Credo, però, che dovremmo superare anche lo stereotipo dei beni comuni come qualcosa di malleabile che può solo essere irrigidito dal diritto. Nel libro introduciamo il concetto di “insurrecionalismo jurídico” perché è importante capire che un “código común” non è una norma giuridica: la norma, una volta approvata, non consente modifiche, mentre un código común è una disposizione permanente aperta e modificabile.

In Italia il principio di sussidiarietà orizzontale ha costituito il quadro costituzionale di riferimento per l’attuazione di pratiche collaborative attraverso i Regolamenti comunali per l’Amministrazione condivisa dei beni comuni. Quali sono gli strumenti giuridici che possono promuovere questo processo in Spagna (e a quale scala)?

A: In Spagna non abbiamo un principio costituzionale di sussidiarietà orizzontale, lo Stato non ha l’esplicito mandato di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini. Se è vero che le dinamiche partecipative sono comunque molto presenti nelle nostre città (sia in termini di esperienze autogestite al di fuori della sfera istituzionale che in forme collaborative), questo significa che qui le istituzioni stanno usando altre lenti interpretative per leggere (e favorire) le pratiche di commoning.
La Città di Barcellona, ad esempio, si sta muovendo a partire dal patrimonio. Patrimoni Ciutada è un programma che mira a raccordare le forme esistenti di gestione degli spazi di proprietà pubblica per sviluppare un nuovo modello di collaborazione pubblico-comunitaria, che oltre all’assegnazione degli immobili preveda una governance partecipata in cui istituzioni pubbliche e organizzazioni sociali si incontrino per valutare l’andamento della gestione attraverso lo strumento del bilancio comunitario.
A Barcellona esistono moltissime esperienze di cogestione (Ateneu Nou Barris, Can Masdeu, Can Battlò, Can Vies, per citare le più conosciute) che sono nate da occupazioni informali, che sono molto radicate nei territori e che probabilmente non hanno ‘bisogno’ di un riconoscimento istituzionale. Pensiamo che programmi come Patrimoni Ciutada siano utili per favorire l’attivazione di quelle persone ed esperienze che non hanno quel tipo di forza politica, facendo arrivar loro un messaggio di possibilità. È importante che anche i funzionari capiscano che non esistono solo l’esternalizzazione al settore privato o la gestione diretta del settore pubblico, esiste un altro modo di fare le cose.
Sicuramente è a livello locale che sono state messe in atto le principali sperimentazioni (come la Ordenanza de Cooperación Público-Social di Madrid che tentava di regolamentare l’uso civico degli spazi pubblici o il Reglamento de Participación di Pamplona), ma non sono molte le esperienze in grado di istituire nuovi strumenti amministrativi.
Ogni proposta individua una falla nel proprio sistema che le permetta entrare e trasformarlo dall’interno. A La Coruña, ad esempio, hanno elaborato un’interpretazione ampia del concetto di spazio pubblico, che inquadra come “espacio público general” alcuni spazi chiusi come il piano terra dell’edificio de las Naves de Metrosidero, e che ne semplifica moltissimo la normativa d’uso.

D: La questione della scala territoriale è rilevante. In “Códigos Comunes” descriviamo il passaggio dalla costituzione all’istituzione, un livello forse meno ambizioso ma che ci permette di concretizzare processi ‘istituenti’ proprio in quanto istituiscono realtà capaci di fornire strumenti reali per soddisfare i nostri bisogni, come individui e come società.

Quanto l’emergere di un ‘nuovo Municipalismo’ – che nella Penisola iberica ha portato al governo sindaci e liste espressi da piattaforme civiche in molte città tra cui Madrid, Barcellona, Valencia, Zaragoza, La Coruña – ha contribuito a facilitare il processo di ‘devenir común’?

D: In Spagna esiste una cultura politica strettamente legata alla visione del Comune come spazio di auto-organizzazione. Città come Barcellona hanno una lunghissima tradizione politica in questo senso.

A: Studiosi come Ismael Blanco, Ricard Gomà e Joan Subirats hanno approfondito il ruolo dei beni comuni urbani nel ‘nuovo Municipalismo’, descrivendo il governo locale come spazio in cui i principi della democrazia politica, economica e sociale possono essere ‘radicalmente’ messi in pratica.
Credo, però, che questo processo abbia a che fare con diversi fattori, tra cui la tradizione politica dei movimenti sociali. In Spagna i movimenti sociali hanno una matrice chiaramente anarchica e un modello di gestione fortemente orizzontale e assembleare. Il municipalismo è profondamente influenzato dal movimento per la cultura libera e dal movimento femminista, che con i beni comuni condividono lessico e valori intorno alla cura, all’interdipendenza, all’auto-organizzazione collettiva.
In questo senso credo che la Spagna, pur non avendo un principio di sussidiarietà chiaro e un sistema giuridico così ‘favorevole’ come quello italiano, parta da un ecosistema di pratiche e un immaginario politico che contribuisce allo sviluppo dei beni comuni urbani.

In che misura le pratiche di commoning producono un impatto sulle politiche pubbliche? In quali ambiti di policy?

A: Sicuramente incidono sulle politiche abitative. In Spagna ci sono varie esperienze di gestione cooperativa che ruotano attorno al tema della casa come bene comune (La Borda di Barcellona è il caso più paradigmatico, ma ci sono molti esempi in Catalunya). Evidenzierei però anche quei processi emergenti che non si dichiarano esplicitamente come “beni comuni urbani”.

D: La Plataforma Afectados por la Hipoteca, ad esempio, non fa riferimento nel suo discorso al dibattito sui beni comuni, ma è un soggetto politico che agisce in modo autonomo per responsabilizzare istituzioni e cittadini sul tema casa, favorendo modalità di organizzazione collettiva che rifiutano la delega e le forme rappresentative della politica tradizionale.
Sul piano operativo, la PAH facilita processi di gestione diretta degli spazi occupati per ospitare le famiglie sfrattate. Sul piano legale, promuove azioni di autotutela del diritto alla casa (come la formulazione di proposte di legge di iniziativa popolare), che ambiscono ad incidere sui processi decisionali. Nel 2018 la celebre mozione che chiedeva di realizzare un 30% di alloggi sovvenzionati in tutti i nuovi insediamenti abitativi nella città di Barcellona ha coinvolto nella stesura gli stessi beneficiari dei servizi sociali che erano in lista d’attesa per avere un alloggio per ribadire che anche la formulazione del diritto è comune e basata su diritti collettivi.

A: C’è infine il tema del devenir-común dei servizi pubblici: possiamo coinvolgere i cittadini nella gestione e nel monitoraggio della fornitura di servizi di base come l’acqua e l’energia, rivendicati dalle comunità come beni comuni? Sebbene questi ambiti siano, per scala e complessità, molto difficili da raggiungere, stiamo osservando esperienze interessanti come la Taula de l’Aigua/ Observatorio del Agua di Terrassa e la Xarxa per la Sobirania Energètica.

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Foto di copertina: Sandrine Revel. Immagine per il progetto Once Upon a Future de Stealth.Unlimited, Emil Jurcan y Arc en Rève Architecture Centre, Burdeos, 201

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