La capacità di autorganizzazione delle comunità locali risulta più marcata nei periodi di crisi, siano esse di tipo economico, sociale, sanitario o ambientale, facendo riemergere il bisogno delle persone di ritrovare una nuova dimensione collettiva e di (ri)costruire legami sociali ed economici di prossimità basati sulla cooperazione e la condivisione di bisogni, interessi e risorse. La ricerca di soddisfazione di questo rinnovato bisogno di appartenenza alla propria comunità locale porta alla nascita di nuove forme di solidarietà e partecipazione orientate a superare la distinzione tra consumatori e produttori di un bene o servizio. Queste nuove pratiche di trasformazione sociale a vocazione imprenditoriale prendono il nome di Comunità Intraprendenti e, come emerge dalla ricerca svolta da Euricse, sono di particolare interesse per il contributo che possono dare alla rivitalizzazione di aree urbane, con particolare riguardo a quelle degradate o caratterizzate da fenomeni di marginalità sociale, e di aree rurali a rischio di spopolamento a causa della mancanza di opportunità di lavoro o di difficoltà di accesso ai servizi essenziali (sanità, istruzione, mobilità, servizi sociali, servizi postali, ecc.).
Le Comunità Intraprendenti rappresentano forme di organizzazione sociale ed economica innovative per quanto riguarda i modelli di governance e la capacità di rimettere al centro le persone, l’ambiente e il progresso socio-economico attraverso il coinvolgimento attivo della società civile nella produzione e gestione di beni e servizi per la comunità. Si differenziano tra loro in base al contesto sociale, istituzionale ed economico nel quale si sviluppano e operano ed in base alle tematiche di cui si occupano. Nonostante le differenze che le contraddistinguono, tutte le Comunità Intraprendenti condividono tre elementi: (i) sono il risultato di un processo di auto-organizzazione della comunità; (ii) agiscono per migliorare la sostenibilità socio-economica della comunità; (iii) gestiscono l’organizzazione e le attività che realizzano attraverso la partecipazione attiva della comunità.
Partecipazione: si, ma quale?
Più una comunità locale è complessa e diversificata al suo interno più il contributo di tutti i suoi componenti (enti pubblici, privati e società civile) sarà funzionale a intercettare i diversi bisogni e interessi presenti al suo interno e a trovare le soluzioni migliori per soddisfarli. La partecipazione che caratterizza le Comunità Intraprendenti è una pratica che consente a tutti i membri della comunità di prendere parte attiva – con modalità e gradi di intensità diversi per garantire a tutti di poter “in qualche modo” essere coinvolti – ai processi decisionali, al finanziamento e alla realizzazione delle attività funzionali al miglioramento della propria qualità di vita, individuale e collettiva.
Questi nuovi modelli di aggregazione fondano la partecipazione su una forte dimensione relazionale, creando e offrendo ai soggetti interessati spazi (fisici o virtuali) di condivisione, confronto e collaborazione per contribuire con idee, competenze e risorse al benessere collettivo. Tuttavia, le forme partecipative che si realizzano concretamente non sono ovviamente uguali per tutte le Comunità Intraprendenti. Esse variano in base alle caratteristiche che le contraddistinguono: (i) i bisogni, gli interessi e le risorse che la comunità locale esprime, (ii) gli obiettivi che definiscono, (iii) le attività che decidono di realizzare per prendersi cura del proprio luogo e (iv) la capacità di fare leva su quegli elementi materiali e immateriali a cui la popolazione locale attribuisce un valore sociale e/o economico.
Amministrazione condivisa: strumento applicativo vs principio operativo
La capacità auto-organizzativa che le Comunità Intraprendenti stanno dimostrando non deve essere intesa come la convinzione di poter “fare da soli”, di essere “sufficienti a sé stessi”, quanto piuttosto l’espressione della volontà di chi vive in un dato luogo di diventare attore protagonista del proprio processo di sviluppo sociale ed economico.
Per raggiungere questo obiettivo è fondamentale che la pubblica amministrazione svolga un ruolo attivo.
Come sappiamo, la nostra Costituzione attribuisce allo Stato e agli enti pubblici territoriali il ruolo di favorire, sulla base del principio di sussidiarietà, «l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale» (art. 118, comma 4). Se adesso è possibile legittimare ufficialmente l’intraprendenza dei cittadini, questo stesso articolo non deve essere interpretato né come una “concessione” (i cittadini possono fare qualcosa perché hanno il permesso di farlo), né come una forma di arretramento del potere pubblico rispetto ai propri compiti o uno strumento di “esternalizzazione strumentale” per ridurre i costi di un servizio e neppure come l’occasione da parte degli abitanti di un dato territorio di sostituirsi liberamente alla funzione pubblica. Tutt’altro, questo riconoscimento deve essere inteso come uno strumento che consente a soggetti diversi, ma tutti appartenenti alla stessa comunità locale, compresa la pubblica amministrazione, di cooperare tra loro nell’interesse generale della comunità.
In Italia, negli ultimi venti anni si è assistito alla sperimentazione e diffusione di differenti pratiche collaborative e strumenti partecipativi a livello nazionale e comunale. I Patti di collaborazione, i Piani di zona, le Agende 21 locali, i Contratti di quartiere, il Bilancio partecipativo, il Dibattito pubblico, i Sondaggi deliberativi, le Giurie di cittadini, i Consigli Territoriali di Partecipazione rappresentano alcuni strumenti orientati a fornire nuove e più ampie opportunità di coinvolgimento della società civile nei processi di governo socio-economico del territorio e nella partecipazione attiva alle scelte pubbliche, ridefinendo il rapporto tra pubblica amministrazione e società civile.
Se il primo obiettivo deve essere innanzitutto quello di non fare passi indietro rispetto a quanto è stato realizzato fino ad oggi, andando a cancellare gli strumenti esistenti (si veda, ad esempio, il recente articolo pubblicato qui sul Dibattito Pubblico), il secondo deve essere quello di non limitarsi a riconoscere l’esistenza di queste pratiche dal basso, ma anche la funzione sociale ed economica delle Comunità Intraprendenti e il loro potenziale come “strumento di raccordo” tra la società civile e pubblica amministrazione, individuando nuovi strumenti funzionali al loro sviluppo, consolidamento e replicabilità.
Le Comunità Intraprendenti, guardando ad altri lavori presenti in letteratura, sono anche definite come “luoghi o presidi civici”, “spazi abilitanti”, “palestre di democrazia”, “avamposti di comunità”, “agenti del cambiamento”, dove le attività e i modelli di governance innovativi che vengono realizzati non sono il fine ultimo dell’azione collettiva, ma un mezzo per (ri)attivare il protagonismo e la responsabilità degli abitanti per lo sviluppo e il benessere della propria comunità. Sono luoghi dove gli attori coinvolti hanno la possibilità di sperimentare nuove forme di ascolto, interazione, scambio e condivisione, dove apprendere e avviare nuovi percorsi di crescita ed emancipazione individuale e collettiva, dove sviluppare nuove reti di relazioni e nuove forme di impegno civico, dove condividere e attivare risorse materiali e immateriali e cooperare per prendersi cura di beni comuni, contribuendo così in prima persona al soddisfacimento di bisogni, interessi e desideri individuali e collettivi.
Oltre a sviluppare nuovi disegni di legge a livello nazionale e strumenti normativi da mettere a disposizione degli Enti locali per favorire l’attuazione dell’art. 118, ciò che deve essere avviato è un vero e proprio processo di apprendimento istituzionale a livello locale riguardo agli elementi che stanno alla base dell’amministrazione condivisa, intesa come principio e valore fondativo che guida l’azione della pubblica amministrazione e di tutta la comunità.
Dall’Amministrazione condivisa alla governance territoriale
La ricerca Euricse sulle Comunità Intraprendenti ha messo in evidenza che questo obiettivo è possibile, anche se è conseguito in modi diversi a seconda dei diversi contesti territoriali in cui operano le Comunità Intraprendenti o della loro tipologia (Patti di collaborazione complessi, Imprese di comunità, Community hub, Portinerie di quartiere, Empori solidali, Comunità Energetiche Rinnovabili, Fab-lab). In alcuni casi, le amministrazioni locali collaborano con queste organizzazioni (partecipando alla governance o sostenendone lo sviluppo) o le promuovono (favorendone la costituzione attraverso incentivi monetari o iniziative di animazione territoriale).
Affinché si realizzi questo processo di apprendimento istituzionale, funzionale a ridefinire il rapporto tra la pubblica amministrazione e il luogo di vita, oltre a garantire “l’autonoma iniziativa dei cittadini” la pubblica amministrazione deve valorizzare la capacità d’intraprendenza della società civile e le diverse modalità attraverso cui essa si concretizza. Le Comunità Intraprendenti sono alcune di queste modalità di ”autonoma iniziativa” e riconoscerne il valore aggiunto vuol dire ripensare il modo di essere comunità (perché si condivide lo stesso luogo di vita) e sentirsi comunità (perché si vuole farne parte) e creare un nuovo sistema di relazioni che leghi tra loro i diversi attori locali pubblici e privati. Se ragionare in termini dicotomici (Stato-Mercato) o tricotomici (Stato-Mercato-Comunità) è funzionale per mettere in evidenza il ruolo che ciascuno attore può (o dovrebbe) svolgere in un’ottica (idealmente) di complementarietà, quando si parla di comunità locale la pubblica amministrazione non deve essere vista come un soggetto estraneo. Solo iniziando a pensare alla comunità locale come un soggetto corale, formato da tutti gli attori che sono presenti al suo interno, compresa, quindi, la pubblica amministrazione, è possibile attuare davvero il principio alla base dell’amministrazione condivisa, dove tutti i vari membri della comunità si relazionano tra loro come alleati e si impegnano “coralmente” per riconoscere e soddisfare i bisogni e gli interessi della comunità locale.
Solo in un’ottica di amministrazione condivisa, e cioè di coesistenza, complementarietà e relazionalità tra istituzioni pubbliche, private e società civile, le comunità locali possono realmente autogovernarsi, orientare la produzione e il consumo di beni e servizi locali e formare un “patto corale di luogo” in cui il bene comune prevale sugli interessi individuali. Solo così esse possono riappropriarsi del proprio destino e contribuire al processo di trasformazione culturale necessario per (ri)costruire una “coscienza di luogo”, cioè il senso di appartenenza, responsabilità e cura verso il proprio luogo di vita e la consapevolezza di poter contribuire a orientarne il cambiamento sociale, economico e ambientale.
Jacopo Sforzi è ricercatore senior presso Euricse. PhD in Sociologia economica presso l’Università di Brescia, si occupa di istituzioni e sviluppo locale, con particolare riguardo al capitale sociale, ai modelli cooperativi e alle diverse forme di organizzazione delle comunità locali.