Non basta introdurre nuovi strumenti amministrativi se poi la loro applicazione pratica è influenzata da elementi che la riforma non riesce a modificare: qualche riflessione a valle della prima indagine nazionale sulla co-progettazione in Italia

Con l’approvazione dell’art. 55 del Codice del terzo settore e con la sentenza della Corte Costituzionale del 2020 è opinione diffusa che si sia compiuta una rivoluzione copernicana nei rapporti tra pubblico e terzo settore. L’idea che si possa costruire insieme interventi di pubblico interesse è uno dei traguardi più sentiti e al tempo stesso più ambiti da parte di chi vede l’urgenza di ripensare a fondo il modo con cui sono realizzate le politiche pubbliche ed è impostato il rapporto tra istituzioni e cittadini. La diffusione della co-programmazione e soprattutto della co-progettazione registrata nell’ultimo biennio sotto certi aspetti sembrerebbe dare ragione a chi parla dell’art. 55 come di una svolta epocale che sancisce la definitiva costituzionalizzazione della sussidiarietà e del diritto del terzo settore. Attraverso la co-progettazione si afferma a livello teorico un nuovo concetto di condivisione tra pubblico e terzo settore che non riguarda solo gli intenti, ma anche le risorse e l’impegno congiunto a raggiungere obiettivi condivisi e in questo senso si tratta veramente di un punto di rottura con la filosofia della separazione tra funzione di acquisto e di produzione tipica dei regimi di affidamento competitivi dei servizi diventati dominanti nell’ultimo ventennio.
Come ogni riforma, anche quella dell’amministrazione condivisa può dirsi realizzata però solo nel momento in cui viene tradotta in pratica. Tradurre è un’operazione non banale e soprattutto mai scontata. Come scriveva Heidegger, ogni traduzione porta con sé il germe del tradimento, perché parole e testi assumono significato nella nuova lingua in relazione a molteplici aspetti come il contesto, la cultura e la disponibilità o meno di accettare compromessi tra il traduttore e il lettore.

La realtà è fatta di luci e ombre

Allo stesso modo di un testo, anche una norma per trovare applicazione si deve confrontare con molteplici fattori che ne possono decretare il successo, oppure si trasformano in ostacoli. Sull’applicazione dell’art 55 le prime ricerche empiriche mostrano quello che tutto sommato era facile aspettarsi. Al di là della spinta retorica che ha accompagnato il dibattito dell’ultimo periodo, la realtà è fatta di luci e ombre e soprattutto mette in chiaro che non basta introdurre nuovi strumenti amministrativi e nuove normative se poi la loro applicazione pratica è influenzata da elementi che la riforma non riesce a modificare.
La prima indagine nazionale è stata realizzata da Euricse – European institute on social and cooperative entreprise su un campione nazionale di 20 casi, un numero limitato e che richiede sicuramente ulteriori approfondimenti, ma che offre indicazioni piuttosto chiare e facilmente estendibili a una pluralità di situazioni che presentano caratteristiche analoghe.

I principali risultati della ricerca possono essere sintetizzati come segue:

  1. La co-programmazione è ancora pochissimo diffusa, mentre prevale l’uso della co-progettazione come strumento di management di problemi più contingenti che strategici. In teoria la co-progettazione dovrebbe essere un modo di attuare linee e obiettivi elaborati attraverso processi partecipati nella fase di programmazione. Tale fase propedeutica tuttavia solo nella metà dei casi è effettivamente stata realizzata e spesso tramite forme diverse dalla co-programmazione prevista dall’art. 55 (per esempio attraverso piani di zona). L’analisi dei bisogni, inoltre, è effettuata nella quasi totalità dei casi tramite il riferimento prevalente ai servizi consolidati più che ai bisogni emergenti attraverso la partecipazione attiva anche di cittadini e/o utenti. Solo nelle pochissime realtà dove esistono amministrazioni pubbliche più preparate e strutturate i processi di programmazione sono chiaramente orientati ad analizzare e ragionare sui nuovi bisogni attraverso processi di coinvolgimento della cittadinanza, mentre negli altri casi prevalgono nettamente approcci più focalizzati sulla gestione del consolidato e dei servizi storici.
  2. La co-progettazione esprime le sue maggiori potenzialità in presenza di relazioni collaborative già esistenti (tra pubblico e terzo settore e tra enti di terzo settore) e rispetto a interventi nuovi, mentre appare più faticosa da realizzare nel caso in cui i rapporti pregressi abbiano natura conflittuale o strumentale, e gli avvisi riguardino la progettazione di servizi consolidati. Il punto da sottolineare è che l’amministrazione condivisa è un processo path dependence, ovvero che dipende dalle condizioni e dai vincoli precedenti alla sua attuazione. L’esistenza di rapporti di fiducia sia tra pubblico e terzo settore che all’interno dello stesso terzo settore locale per esempio è un prerequisito sostanziale per decidere di investire tempo e risorse per costruire qualcosa di condiviso insieme a altri attori. Se la fiducia sussiste la disponibilità a collaborare sarà elevata, altrimenti tenderanno a prevalere atteggiamenti di sospetto reciproco e comportamenti strumentali e di parte. La fiducia non è una condizione che si può però improvvisare e richiede tempo per essere costruita. Se questo tempo manca le co-progettazioni rischiano di diventare forzature che producono scarsi risultati o che possono trasformarsi in un boomerang. Anche l’esistenza di servizi pregressi è un tema rilevante da affrontare. Pensare di riorganizzare un servizio in forme nuove, per esempio, significa affrontare il problema delle risorse già impegnate in termini di operatori e finanziamenti ai singoli enti. Modificare l’attribuzione di un budget consolidato in ragione di un miglioramento del servizio può comportare effetti problematici per le organizzazioni, ed è evidente che in questi casi sono da attendersi forti resistenze al cambiamento. Quello che c’è prima, è un aspetto determinante dunque di ciò che può essere fatto dopo e le aspettative sull’amministrazione condivisa dovrebbero essere rese realistiche rispetto a questo passaggio, sia per calibrare bene gli obiettivi dei processi collaborativi che per verificare se e quando è opportuno attivarli.
  3. La co-progettazione, infine, funziona nell’ambito di politiche espansive e non restrittive di spesa pubblica e implica un inevitabile investimento in competenze e risorse per governare i processi di interazione complessi tra pubblico e terzo settore. Il principio della condivisione delle risorse che distingue la co-progettazione rispetto agli appalti rischia, in condizioni di risorse contingentate, di essere interpretato nei termini meramente economici di contribuzioni dei diversi partner al budget di spesa per finanziare i servizi. Si creano, applicando questo approccio, situazioni che vanno in direzione esattamente opposta rispetto a quelle teorizzate dal legislatore. In circa la metà delle procedure analizzate le amministrazioni pubbliche chiedevano agli enti di terzo settore contributi economici che non tenevano conto dei costi reali dei servizi e della natura dei diversi enti. Per esempio, le co-progettazioni sono già problematiche per le cooperative sociali perché non permettono di maturare IVA a credito. Se a ciò si aggiungono pretese di pagamento delle sole ore di forza lavoro impegnate nell’erogazione dei servizi, senza il riconoscimento dei costi indiretti di coordinamento e segreteria, oppure se sono richieste vere e proprie compartecipazioni economiche che si traducono in sconti mascherati sul costo dei servizi è evidente gli obiettivi della amministrazione condivisa risultano completamente snaturati. Comprendere che la compartecipazione deve tenere conto sia della natura variegata delle risorse, che sono economiche ma anche di conoscenza, di expertise, di capitale sociale e reputazione, che di un principio di equità e mutuo vantaggio per gli enti coinvolti nei processi collaborativi implica che amministratori e funzionari pubblici sappiano cogliere le opportunità e le sfide dell’amministrazione condivisa. Dirigenti e funzionari così come amministratori non preparati e non disponibili a rinegoziare il proprio ruolo e potere consolidato tendono inevitabilmente a fraintendere il valore della collaborazione. Uno medesimo problema insorge per la gestione del processo collaborativo che richiede competenze per cogliere la differenza con i procedimenti amministrativi più tradizionali e capacità di superare gli approcci burocratici più radicati che ostacolano la flessibilità richiesta per governare la complessità delle procedure collaborative.

Come superare la sindrome dell’attesa

Di fronte alle molteplici problematiche e difficoltà che spesso incontra l’applicazione pratica delle co-progettazioni e sottovalutando gli elementi di potenzialità in esse insiti, da più di una parte sta emergendo un atteggiamento radicale di reazione al cambiamento. Tornare agli appalti per diversi amministratori e dirigenti pubblici e dello stesso terzo settore sembra prospettarsi come una soluzione più praticabile e funzionale (e comoda) per gestire le problematiche complesse della realizzazione degli interventi. Si può comprendere una certa sfiducia in una fase storica complicata come quella attuale. Tuttavia bisognerebbe superare la sindrome dell’attesa di Godot che spesso è una causa determinante della difficoltà di innovazione dei rapporti tra pubblico e terzo settore. La sindrome di Godot è il dramma dell’attesa che attanaglia i protagonisti del libro di Samuel Beckett – Vladimiro e Antigone – che sotto un albero che scandisce il tempo con la perdita delle foglie discutono, litigano, ma rimangono avvinghiati in una relazione di immobilizzante reciproca dipendenza. L’amministrazione condivisa, così come le sue declinazioni proposte dall’art. 55, non è una soluzione che calata dall’alto risolve da sola tutti i problemi. Essa costituisce piuttosto una opportunità che per essere colta va liberata da aspettative improprie e riportata su un piano di realtà. Questo piano indica chiaramente come la nuova strada richiede un grande lavoro di preparazione, un investimento in risorse e competenze e soprattutto una riorganizzazione progressiva dell’architettura generale, sia dei rapporti tra pubblico e terzo settore che della configurazione e del modo di operare degli stessi enti. Tornare agli appalti sarebbe la soluzione più paradossale per affrontare questa sfida, perché la gran parte dei problemi che incontrano oggi le nuove agende collaborative dipende dagli effetti nefasti di una stagione di competizione al ribasso che ha prodotto frammentazione, impoverimento di competenze e perdita di vista della centralità delle politiche sul management.


Luca Fazzi è professore ordinario di Sociologia presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università degli Studi di Trento.
Il Rapporto “Abilitare la collaborazione. Presupposti, vincoli e condizioni della co-progettazione in Italia” si può scaricare gratuitamente dalla pagina dedicata sul sito di Euricse.