Amministrazione condivisa è l’espressione che usiamo per definire un modello di amministrazione pubblica fondato sulla collaborazione fra cittadini e amministrazioni, entrambi impegnati nel perseguimento dell’interesse generale.
La prima formulazione della teoria che sta alla base di tale modello, esposta in un mio saggio del 1997, prendeva in considerazione come alleati dell’amministrazione tutti i cittadini, in senso lato, singoli e associati. La Corte Costituzionale, nella nota sentenza n. 131/2020, ha applicato la teoria in particolare ai rapporti fra amministrazioni ed enti del TS instaurati sulla base dell’art. 55 del Codice del TS, affermando che essi, in quanto fondati sulla collaborazione anziché sulla competitività, sono un esempio di amministrazione condivisa.
Non solo co-programmazione e co-progettazione
Negli ultimi tre anni, per superare la logica degli appalti fondata sulla competitività fra gli enti del TS si sono moltiplicate in nome dell’amministrazione condivisa le esperienze di co-programmazione e di co-progettazione fra amministrazioni locali ed enti del TS. I risultati di queste prime esperienze si prestano a critiche e valutazioni discordanti su cui in questa sede non ci soffermiamo per due motivi.
In primo luogo perché per un approfondimento preferiamo rinviare al numero 3/2023 di Impresa sociale uscito pochi giorni fa con una parte monografica dedicata interamente ad un’attenta analisi degli esiti dell’applicazione dell’amministrazione condivisa nei rapporti fra enti locali ed enti del TS. In particolare, si segnala l’analisi di Luca Fazzi dal titolo: Amministrazione condivisa: ne vale la pena? in cui svolge un approfondito esame degli aspetti positivi e di quelli negativi emersi in questo primo periodo di applicazione dell’amministrazione condivisa ai rapporti con gli enti del TS.
In secondo luogo, perché l’amministrazione condivisa che si realizza mediante l’applicazione dell’art. 55 del Codice del TS riguarda unicamente gli enti del TS e prevalentemente il settore del welfare. L’amministrazione condivisa che si realizza mediante i patti di collaborazione riguarda invece tutti i cittadini, singoli e associati (dunque anche gli enti del TS) e tutti gli ambiti di intervento potenzialmente di interesse generale (art. 118, u.c. Cost.), quindi è un modello generale di amministrazione, complementare a quello ottocentesco tradizionale.
Ora, poiché il tema di fondo di questa tavola rotonda è l’amministrazione condivisa come modello organizzativo di governo delle città, evidentemente in questa sede dobbiamo fare riferimento all’accezione di amministrazione condivisa più ampia, quella che mediante i patti di collaborazione consente l’intervento dei cittadini nella cura dei beni comuni materiali e immateriali, fra cui anche il welfare di comunità.
L’amministrazione condivisa presa sul serio
Come tutte le cose, anche l’amministrazione condivisa produce effetti positivi soltanto se la si prende sul serio. E prendere sul serio l’amministrazione condivisa vuol dire renderla strutturale, modificando gli elementi essenziali del comune, cioè le funzioni, l’organizzazione, le procedure, il personale ed i mezzi del comune affinché di fronte ad un problema riguardante la città sia normale che i funzionari comunali possano scegliere se usare gli strumenti dell’amministrazione tradizionale oppure quelli dell’amministrazione condivisa.
Non abbiamo il tempo in questa sede per entrare nei dettagli delle modifiche necessarie per rendere tutti gli elementi dell’amministrazione coerenti con la scelta politica di rendere strutturale l’amministrazione condivisa (vedi I sei elementi essenziali per costruire l’amministrazione condivisa).
Possiamo però indicare alcune amministrazioni alle cui esperienze ispirarsi e, fra queste, un comune che ha certamente preso sul serio l’amministrazione condivisa è il comune di Bologna. Non è l’unico, naturalmente, ci sono anche altri esempi (v. la bella intervista che abbiamo pubblicato recentemente sull’esperienza di Verona) ma è un fatto storico che la teoria dell’amministrazione condivisa ha potuto concretizzarsi in norme ed atti grazie alla disponibilità dieci anni fa dell’intera amministrazione comunale bolognese, consentendo la redazione del primo Regolamento comunale per l’amministrazione condivisa dei beni comuni.
Le modifiche allo Statuto di Bologna
Dunque, per far capire cosa intendiamo quando diciamo che bisogna rendere strutturale l’amministrazione condivisa, un esempio sono le modifiche allo Statuto del Comune di Bologna approvate nel dicembre 2022 ed il nuovo Regolamento sulle forme di collaborazione tra soggetti civici e amministrazione per lo svolgimento di attività di interesse generale e per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani, entrato in vigore nel gennaio 2023.
In particolare, per quanto riguarda lo Statuto, dispone il nuovo art. 4 bis, intitolato Cittadinanza attiva e sussidiarietà, che:
- Il Comune in attuazione del principio programmatico di sussidiarietà orizzontale attua il metodo dell’amministrazione condivisa e ne disciplina con apposito regolamento soggetti, processi e forme di sostegno.
- Il Comune pertanto valorizza e coinvolge attivamente nei processi della programmazione e della progettazione gli Enti del Terzo settore, le libere forme associative, le Case di Quartiere e tutti gli altri soggetti civici formali e informali che non perseguono scopo di lucro.
- Attraverso il metodo dell’amministrazione condivisa il Comune attiva connessioni tra i soggetti civici e le risorse attive sul territorio per la costruzione di attività di interesse generale complementari e sussidiarie a quella dell’Amministrazione e di interventi di cura e di rigenerazione dei beni comuni urbani, intesi quale concreta manifestazione della partecipazione alla vita della comunità.
- Il Consiglio in sede di approvazione del bilancio predetermina il complesso delle risorse finanziare volte a promuovere le forme di collaborazione con i soggetti civici e la relativa destinazione secondo gli obiettivi programmatici. Il regolamento di cui al comma 1 predetermina i criteri e le procedure per la concessione di forme di sostegno ai progetti di amministrazione condivisa.
Questo articolo è di particolare importanza perché afferma che il Comune di Bologna vuole attuare il principio costituzionale di sussidiarietà usando l’amministrazione condivisa come modello organizzativo. Per la verità al primo comma l’articolo in esame parla di “metodo dell’amministrazione condivisa”, anziché come sarebbe corretto di “modello organizzativo” (perché l’amministrazione condivisa è molto più di un “metodo”). Ma il concetto è chiaro e la sostanza non cambia. In questo caso, la sostanza sta nel fatto che il Comune di Bologna, dopo anni di intensa esperienza, non soltanto riconosce esplicitamente nel proprio Statuto l’amministrazione condivisa come lo strumento attuativo del principio di sussidiarietà, ma ne amplia l’applicazione a tutti i soggetti civici presenti in città.
Tutti i soggetti civici, non solo gli enti del Terzo Settore
Ciò avviene grazie al secondo comma dell’art. 4 bis, che dispone che il Comune di Bologna nell’attuazione dell’amministrazione condivisa “valorizza e coinvolge attivamente … gli Enti del Terzo settore, le libere forme associative, le Case di Quartiere e tutti gli altri soggetti civici formali e informali che non perseguono scopo di lucro”.
Questa disposizione è assolutamente coerente con quanto affermato al primo comma del medesimo articolo e ne è la logica conseguenza. Il Comune di Bologna dichiara infatti nel proprio Statuto di voler attuare il principio costituzionale della sussidiarietà e di volerlo fare utilizzando l’amministrazione condivisa, cioè un modello organizzativo generale che si può realizzare con strumenti che variano a seconda dei diversi soggetti con cui il Comune intende costruire relazioni sussidiarie.
E dunque, per quanto riguarda gli enti del Terzo Settore iscritti al Registro unico nazionale, il Comune potrà utilizzare le disposizioni di cui agli art. 55 e 56 del Codice del TS. Per quanto riguarda invece tutti gli altri soggetti civici il Comune potrà instaurare con essi relazioni fondate sul principio di sussidiarietà utilizzando un altro strumento fra quelli messi a disposizione dall’amministrazione condivisa, uno strumento a Bologna ben conosciuto e collaudato, cioè i patti di collaborazione.
I patti sono tanto più preziosi per le amministrazioni locali come strumento di relazioni sussidiarie in quanto molti soggetti che attualmente fanno parte del Terzo Settore non possono o non vogliono iscriversi al Registro unico nazionale. Se l’art. 55 del Codice del TS fosse l’unico strumento attraverso cui si realizza l’amministrazione condivisa tutti questi soggetti sarebbero esclusi da qualsiasi possibilità di collaborazione con le amministrazioni locali, costringendo le amministrazioni a privarsi del loro prezioso contributo nell’affrontare i tanti problemi delle comunità locali. Usando i patti, invece, anche gli enti non iscritti al Registro unico possono collaborare con l’amministrazione.
La nuova normalità del Comune di Bologna
La modifica statutaria e l’approvazione del nuovo Regolamento per l’amministrazione condivisa non sono meri “aggiustamenti” normativi bensì fanno parte di un disegno politico complessivo che il Comune di Bologna sta perseguendo già da anni e che ora viene a compimento.
Quale sia tale disegno lo ha reso esplicito Erika Capasso in un’intervista a Labsus di qualche mese fa in cui affermava che “La definizione di un unico Regolamento, forte del nuovo contesto normativo nazionale determinato dalla Riforma del Terzo Settore, delinea il modello dell’Amministrazione condivisa come elemento strutturale nel rapporto tra Comune e cittadini”.
L’amministrazione condivisa si fonda sulla collaborazione fra cittadini e amministrazione, dunque considerare questo modello organizzativo come “elemento strutturale” vuol dire considerare strutturale, non episodica o discrezionale, la collaborazione fra amministrazione pubblica e cittadini. In altri termini, mentre altri comuni che hanno adottato il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni utilizzano normalmente gli strumenti del Diritto amministrativo tradizionale fondati sul paradigma bipolare e, di tanto in tanto, anche quelli del nuovo Diritto amministrativo fondato sul paradigma sussidiario (i patti di collaborazione), il Comune di Bologna ha invece deciso che è normale usare sia i provvedimenti amministrativi tradizionali, sia i patti, a seconda degli obiettivi da perseguire e degli interessi da tutelare, grazie ad una visione sistemica dell’amministrazione condivisa.
Questo vuol dire prendere sul serio l’amministrazione condivisa, valorizzando appieno le preziosissime risorse di tempo, competenze, esperienze, relazioni, etc. ben presenti e radicate nella società civile bolognese.
È evidente che non bastano né la decisione politica, né i nuovi strumenti normativi per rendere veramente strutturale l’amministrazione condivisa a Bologna. L’amministrazione ne è ben consapevole e infatti nella sua intervista Erika Capasso riconosceva che “Per applicare il Regolamento in maniera completa e profonda sarà necessario superare le resistenze ad un cambiamento così radicale, sia da parte della macchina amministrativa sia da parte del Terzo settore. Le novità introdotte comportano dei cambiamenti radicali in termini metodologici e di approccio”.
Una nuova forma di democrazia
Ma perché è così importante rendere strutturale l’amministrazione condivisa nelle nostre città? In fondo, la partecipazione alla vita pubblica può realizzarsi e di fatto si realizza in tanti altri modi, per esempio attraverso gli strumenti della democrazia rappresentativa oppure quelli della democrazia deliberativa e partecipativa. Sappiamo tutti, però, che la democrazia rappresentativa purtroppo è in profonda crisi ovunque nel mondo, con un aumento delle autocrazie e delle dittature, mentre gli strumenti della democrazia deliberativa e partecipativa possono essere usati soltanto in determinate circostanze e per risolvere problemi ben individuati.
L’amministrazione condivisa invece è una forma quotidiana di democrazia e di partecipazione, il cui vantaggio rispetto ad altre forme di partecipazione sta nella sua semplicità e concretezza, nel fatto che i risultati della partecipazione si vedono subito ma, soprattutto, negli effetti sociali e politici che essa produce e che altre forme di partecipazione non producono.
I patti sono come gli iceberg
I patti di collaborazione infatti sono come gli iceberg, la cui parte più importante è quella che non si vede… Noi diciamo da anni infatti che oltre agli effetti materiali in termini di miglioramento della qualità della vita, gli effetti veramente importanti dei patti sono quelli immateriali, quelli che non si vedono, cioè il rafforzamento dei legami di comunità e del senso di appartenenza.
Quando i cittadini si prendono cura di un bene comune grazie ad un patto di collaborazione intorno a quel bene si crea una comunità di persone che, nel prendersi cura del bene, in realtà si stanno prendendo cura di sé stesse, in quanto partecipare alle attività previste dai patti produce capitale sociale, senso civico, integrazione (degli stranieri, ma non solo) e fiducia reciproca fra i cittadini e verso le istituzioni. Per questo diciamo che i patti di collaborazione sono, fra le altre cose, anche un antidoto alla depressione ed alla solitudine.
Coltivare la volontà di convivere
Questi effetti relazionali dei patti di collaborazione sono ancora più importanti alla luce di uno dei cambiamenti principali avvenuti negli ultimi decenni nella nostra società. Noi diciamo “territorio” per indicare in sintesi un ambiente di vita e di relazioni, ma dobbiamo renderci conto che il territorio è da fare, che il capitale sociale se non alimentato si esaurisce, che la volontà di convivenza va coltivata, perché oggi molte persone sentono l’altro come una minaccia, non come un potenziale alleato per costruire una società migliore, in cui vivere bene insieme, confidando gli uni negli altri.
È stato detto (ed è vero) che la città è il luogo in cui convivono gli estranei. Ma il tasso di estraneità reciproca negli ultimi anni è aumentato in maniera esponenziale, come testimoniano anche i frequenti episodi di violenza e intolleranza. Negli anni del Dopoguerra e poi ancora fino alla fine del secolo noi Italiani avevamo ben chiaro il senso e il valore del vivere insieme.
Ma è successo qualcosa, negli ultimi venti anni circa, per cui oggi sempre più spesso si ha l’impressione che l’unica bussola per molte persone sia solo il proprio piacere e qualunque richiamo all’attenzione verso le esigenze altrui, verso il rispetto di una cosa chiamata “interesse generale”, venga vissuto come intollerabile restrizione della propria sfera individuale di libertà. Lo si è visto bene durante la pandemia, quando le misure di contrasto sono state osteggiate in nome di una difesa della libertà individuale che in realtà era solo estremo ed egoistico individualismo.
Una sfida per il volontariato italiano
Bisogna imparare nuovamente a convivere, bisogna costruire luoghi, fisici e virtuali, in cui le persone possano riscoprire il piacere dello stare insieme per risolvere insieme i problemi della comunità di cui, più o meno consapevolmente, fanno parte. Noi di Labsus da anni siamo impegnati su questo fronte, perché i patti di collaborazione sono per natura luoghi fisici e virtuali in cui riscoprire il piacere di lavorare insieme alla soluzione di un problema che riguarda tutti.
Ma credo che questa sia oggi una delle sfide principali che il mondo del volontariato italiano deve affrontare, affiancando all’erogazione di servizi la ricostruzione di legami di fiducia e della voglia di partecipare alla vita pubblica. E poiché, come diceva Don Milani, politica è appunto risolvere insieme i problemi, questa è una sfida che ha una dimensione politica.