Questa riflessione nasce nel corso di un viaggio di studio in Brasile nell’ambito di una cooperazione tra l’Università Federale di Goiás e il Politecnico di Torino. Nell’arco di due settimane, tra fine agosto e inizio settembre 2024, Camilo de Lima Amaral e Daniela Ciaffi hanno svolto diverse attività accademiche, tra cui incontri con colleghi delle università federali di Rio de Janeiro, Goiás e Brasília, lezioni, sopralluoghi in favelas – illegali, legalizzate e in corso di legalizzazione – e incontri con associazioni attive per la difesa e la cura dei beni comuni.
L’ultima conferenza di Daniela Ciaffi in Brasile, intitolata Natural protected areas as common good: a sociological approach, ha segnato l’inizio ufficiale del secondo semestre del 2024 all’Università Federale di Goiás, tenutasi presso lo storico Teatro São Joaquim (costruito nel 1857), con un pubblico interdisciplinare, composto da studenti, docenti e ricercatori nei campi dell’architettura, del servizio sociale e del diritto. Heitor Pagliaro, coautore di questo contributo, ha introdotto e moderato quest’ultima conferenza, organizzata in una collaborazione tra il corso di laurea magistrale in Progetto e Città (cui appartiene Camilo de Lima) e il corso di dottorato di ricerca in Diritti Umani (diretto da Heitor Pagliaro).
È possibile declinare anche in Brasile la sussidiarietà orizzontale italiana?
Insieme cerchiamo qui di ragionare sulla possibilità di agganciare il principio italiano di Sussidiarietà orizzontale al contesto legislativo, normativo e regolamentativo brasiliano. Anche al di là dell’Oceano, infatti, grande ci è sembrata la sete di alleanze alla pari, perché la cura dei beni comuni sia un diritto davvero praticabile. Il titolo di questo editoriale, Notizie da nessun luogo, si ispira al libro News from Nowhere (1890), del britannico William Morris, in cui si immagina una società futura senza disuguaglianze, dove i beni comuni sono gestiti collettivamente senza i limiti legali di un ordinamento giuridico che consacra la proprietà privata. Allo stesso modo, le riflessioni sui beni comuni in Brasile si muovono tra l’aspirazione a una gestione partecipativa e le sfide poste dai margini del diritto, dove la realtà giuridica e la struttura sociale spesso rendono difficile la realizzazione di questi principi.
Nel libro “A Cidade do Pensamento Único” (La città del pensiero unico), Erminia Maricato individua l’impasse nell’appropriazione del territorio in Brasile nella legge fondiaria del 1850. Sanzionata poche settimane dopo la legge che vietava la tratta degli schiavi, e prima del ciclo delle importazioni di lavoratori straniere (tra cui tanti italiani, giapponesi e tedeschi), la legge infatti attuava la proprietà privata della terra e impediva che si occupassero liberamente le terre non produttive (al contrario, la corona portoghese ha sempre guidato il processo di occupazione dei cittadini che infatti ne avevano il diritto).
Un principio fondamentale in Brasile: la funzione sociale della proprietà
Secoli dopo, con la promulgazione della Costituzione del 1988, alla fine dell’ennesima dittatura, si affermò il principio della “Função Social da Propriedade” (Funzione Sociale della Proprietà).
Questo principio è considerato una ‘clausola immodificabile’, ovvero un principio che non può essere abrogato o modificato tramite emendamento costituzionale. Sancito dall’articolo 5º, comma XXIII, che stabilisce il ruolo dei diritti fondamentali, questo principio dispone che ‘la proprietà deve rispondere alla sua funzione sociale. Inoltre, esso è riconosciuto come uno dei principi fondamentali dell’ordine economico (articolo 170, comma III). Così, mentre la Costituzione consacra il diritto alla proprietà privata, adotta anche l’idea della sua funzione sociale, cercando di stabilire un equilibrio tra il diritto individuale e l’interesse collettivo. Secondo questo principio, la proprietà, pur essendo privata, deve essere considerata come qualcosa il cui obiettivo è servire la collettività. Non solo le proprietà statali, ma anche quelle private si giustificano in base all’idea di bene comune. Come in contesti rurali la terra deve essere produttiva, così in contesti urbani i piani regolatori definiscono processi partecipativi nelle diverse aree di trasformazione.
È proprio su questo principio della “Funzione Sociale della Proprietà” che si basano la maggior parte delle azioni collettive e orizzontali delle lotte per il diritto alla città e alla terra. Non sono pertanto conformi all’ordinamento giuridico, ad esempio, né un latifondo improduttivo né un edificio o un terreno urbano che viene abbandonato a causa della speculazione immobiliare. In questo senso, movimenti sociali e gruppi organizzati si mobilitano per occupare questi spazi e costringere lo Stato a far rispettare la legge, espropriando le terre e consolidando il diritto al lavoro e alla casa (presenti anche nella Costituzione).
Cosa erano e cosa sono i “Quilombos”?
È quindi in questo gioco ai margini del diritto che si sviluppa la lotta per i diritti ai beni comuni in Brasile. A Rio de Janeiro, abbiamo visitato l’occupazione Manoel Congo, un edificio abbandonato nel centro di Rio de Janeiro, dove una leader del movimento per il diritto all’abitazione si batte da 50 anni per garantire il diritto agli strati più poveri. Garantire il diritto a che cosa? Garantire il rispetto dei diritti dei più poveri? Non è chiaro. L’edificio ospita anche una scuola, un ristorante comunitario e un’associazione, tutti gestiti autonomamente dai residenti.
Nella zona portuale di Rio de Janeiro, schiacciata dalla speculazione immobiliare promossa dai giochi Olimpici, si trova il Quilombo da Gamboa. I “Quilombos” erano spazi isolati occupati dai neri sfuggiti alla schiavitù, il cui riconoscimento legale in Brasile si basa su un principio di proprietà e gestione collettiva.
La natura giuridica stessa della proprietà quilombola è collettiva, ma lo è anche la sua gestione, nella quale le decisioni vengono prese in modo autonomo e partecipativo. Lo Stato, almeno secondo la legge, dovrebbe fungere da facilitatore piuttosto che da attore centrale dell’amministrazione dello spazio comune di un quilombo, prestando servizi pubblici con l’obiettivo di creare le condizioni per il godimento dei diritti fondamentali. Nel caso del Quilombo da Gamboa, i suoi membri, detti “quilombolas”, resistono all’espulsione e si affidano a ONG e associazioni di architetti per autoproteggersi e preservare un co-housing, costruito attorno a uno spazio comune per cucinare e riunirsi.
Queste lotte sono presenti nella vita quotidiana delle città brasiliane, oggi sostenute dalle nuove prospettive del diritto, ma dietro c’è una lotta storica, anteriore al diritto stesso: è il diritto che emerge da una pratica insurrezionale, da coloro ai quali è sempre stato negato il minimo per la sopravvivenza. La gestione comune nell’ambito dei “quilombos” è una esperienza derivata dalla resistenza storica. Il territorio, più che una proprietà, rappresenta un dato antropologico per i popoli “quilombolas”, poiché la loro soggettività si costruisce attraverso il legame collettivo con la terra.
Il concetto di amministrazione popolare
Le ‘favelas’ sono un altro classico esempio di amministrazione collettiva del territorio. In Brasile, il fenomeno sociale delle “favelas” è un punto interessante per pensare la relazione tra gestione dello spazio comune e lo Stato. Le “favelas”, insediamenti informali in aree periferiche e non urbanizzate, sono sorte a partire dagli anni ’30. Allora, all’inizio di questo fenomeno, le persone demarcavano il proprio pezzo di terra, cioè i limiti della loro proprietà privata, e costruivano abitazioni rudimentali. Tuttavia, queste proprietà non venivano riconosciute dal diritto ufficiale.
Con il tempo, la popolazione si è espansa e oggi ci sono “favelas” con più di duecento mila abitanti. Lo status di illegalità, all’inizio, riguardava puramente i diritti reali, ossia i diritti di proprietà. Ma questa situazione di marginalità di fronte al diritto si è progressivamente ampliata e trasformata in una condizione di illegalità della persona stessa. Inizialmente legata esclusivamente ai diritti di proprietà, l’illegalità è diventata un attributo dei soggetti, come se coinvolgesse la loro intera esistenza. Come evidenziato in un’intervista condotta negli anni ’70 dal professore portoghese Boaventura de Sousa Santos nella favela Jacarezinho, un residente affermò: ‘noi siamo illegali‘, esprimendo così la esclusione giuridica che permeava la vita quotidiana della comunità. Questo dimostra che il rapporto tra gli abitanti e il territorio è costitutivo della soggettività di queste persone, della loro auto-rappresentazione e identità.
Questi quartieri segregati non hanno la presenza dello Stato, per cui l’amministrazione dei beni e degli spazi comuni, in alcune ‘favelas’ viene gestita dalla stessa comunità. Senza l’istituzionalità giuridica degli uffici notarili, per esempio, la garanzia delle transazioni è affidata alle associazioni locali. Tuttavia, questo fenomeno non è un’applicazione del diritto statale, ma una pratica ai margini del diritto, creando una sorta di ordinamento normativo marginale, quello che Boaventura ha chiamato pluralismo giuridico, nella sua tesi di dottorato presso Yale negli anni ‘70. Non sarebbe propriamente un caso di sussidiarietà prevista dalla legge, ma una vera e propria amministrazione popolare dello spazio comune.
Nelle favelas di Rio de Janeiro, dove vive 1 abitante su 5
Dietro il già citato Quilombo da Gamboa si trova la favela Morro da Providência, la più antica del paese, dove nel 1897 veniva tollerato che i soldati tornati dalla Guerra di Canudos potessero restare (anche se in realtà non ci andarono mai!). Fuori dai margini dei diritti, ma tollerati come persone che esistono e fanno parte della macchina produttiva del Paese, si stima che il 22% della popolazione di Rio de Janeiro viva oggi nelle favelas. Su queste sponde la lotta è quotidiana, i servizi pubblici sono praticamente inesistenti. Pertanto tutto lì è gestito in modo solidale, collettivo e diretto. Ecco perché oggi in Brasile si tende a chiamarle “comunità”, e non più favelas, per esprimere il senso di collettività del modo di organizzazione sociale.
In un’altra visita, nella Favela da Rocinha, una comunità di oltre 70mila persone si auto-organizza da decenni. Abbiamo assistito a un pomeriggio di racconti di iniziative di imprenditrici e imprenditori sociali, in cui diversi progetti si uniscono per superare i limiti della vita in una favela. Ad esempio, poiché nelle favelas non esistono un sistema stradale con relativa numerazione civica, è stato creato un nuovo sistema di consegna che consente agli acquisti online di essere ricevuti in uno spazio centrale o tramite motociclette nelle sue strade tortuose. Altre esperienze pilota riguardano l’architettura e la moda locale.
Da Rio de Janeiro a Goiânia
Spostandoci da uno dei luoghi più conosciuti del Brasile a uno dei meno turistici, a Goiânia, ecco il Jardim Nova Esperança, con una superficie di 3 km quadrati e 15mila abitanti: una favela pianificata. Durante la dittatura militare, quando le disuguaglianze crescevano, un gruppo di leader comunitari organizzò migliaia di persone che, in un solo giorno nel 1979, occuparono una fattoria. Così, fondarono allora quella che oggi appare come il quartiere consolidato di una città. Il progettista? Un loro leader, geometra, che fu misteriosamente assassinato. Un’altra leader, Ana Lúcia da Silva, coordina ancora oggi il Centro Culturale Eldorado dos Carajás, che fornisce l’unica biblioteca aperta e centro culturale del luogo, promuovendo attività culturali come un festival mensile di musica rap nella piazza. Occupando uno spazio, che la chiesa ora rivendica come proprio, l’associazione si trova in una posizione precaria, senza sapere per quanto tempo potrà funzionare. E molte sono le storie di questo tipo.
Sempre a Goiânia, Vila Lobó è un’antica favela che occupava il corso di un fiume. Recentemente, il più grande proprietario terriero della città ha iniziato la costruzione di un parco per favorire lo sviluppo di enormi torri residenziali, e gran parte della popolazione è stata espulsa dal luogo. Tuttavia un vecchio nucleo ha resistito ed è ancora lì. Al centro, una fontana, un tempo l’unico punto d’acqua della favela, è il centro della comunità, dove abbiamo trovato un senzatetto che spazzava lo spazio, in uno spirito di cura collaborativa e spontanea.
Brasilia
A Brasilia si vive la migliore qualità di vita del paese e nei suoi dintorni si vive la peggiore. La città pianificata, quella passata alla storia dell’architettura e dell’urbanistica, non era e non è per tutti. Nel 1970 fu creata una Commissione per lo Smantellamento delle Invasioni (CEI), che mirava a eliminare le favelas e gli occupanti abusivi della città, trasferendoli in un luogo chiamato Ceilândia, che oggi conta 350.000 abitanti e un unico centro culturale. Accanto è già sorta una favela (“dei figli ormai grandi di Ceilandia”), che si chiama Sol Nascente e conta 93mila abitanti. Lì abbiamo assistito alle attività dell’associazione Jovem de Expressão, che cura una piazza e offre laboratori ai giovani (in modo non ufficiale dal punto di vista dell’ordinamento locale). La ONG Filhas da Terra ha installato un vivaio collettivo e si batte per difendere una sorgente a rischio di cementificazione, per preservare e arricchire la biodiversità, agendo anch’essa al limite della legalità e di fronte alla violenza dei “grileiros” (gruppi armati che promuovono l’urbanizzazione illegale). Pertanto, la realtà delle ‘favelas’ ruota attorno ad azioni di assistenza comunitaria e violenza organizzata. Le comunità vengono quindi gestite direttamente, ma non orizzontalmente: dove non c’è legge, comanda la forza.
Cosa imparare dal Brasile?
Nel recente libro sulla cura dei beni comuni a cura di Daniele Donati si sottolinea l’estrema dinamicità del tema. Questa caratteristica, in Brasile, è molto marcata, soprattutto nel passaggio tra informalità e formalità, tra illegalità e legalità. A pagina 250 del libro sopra citato si parla dei “pungolatori” e degli “invisibili” come di due popolazioni con un ruolo fondamentale nella spinta dal basso verso forme di auto/co-gestione.
Ecco, questi attori possiamo riconoscerli nelle esperienze di Rio de Janeiro, Goiás, Goiânia e Brasília, che abbiamo avuto l’opportunità di conoscere. Spesso, come in Italia, tra loro e le istituzioni pubbliche stanno facilitatori, educatori, mediatori. Ma non sempre, a volte infatti c’è l’autonoma iniziativa di chi si attiva per prendersi cura dei beni comuni: un ragazzo che pulisce la zona di verde attorno a una fontana, due signori che coltivano piante in una mezzeria verde al centro di una strada di una favela legalizzata a Goiânia.
Più sorprendente è l’investimento di fondi pubblici per l’educazione di giovani agricoltori, anche rispetto alla possibilità di non lasciare incolte le terre del Paese. Nessuno ovviamente insegna a occuparle, ma si insegna il diritto ad usarle e il dovere costituzionale di non lasciarle improduttive. Non vediamo nulla di simile in Italia e nella vecchia Europa: e questo ci interroga, profondamente.
Cosa dobbiamo imparare dal Brasile? A chiamare le esperienze di cura dei beni comuni col loro nome, ovvero: esperienze politiche, luoghi di formazione politica, percorsi di educazione politica. Ovviamente il riferimento non è alla politica partitica o elettorale, ma alla politica intesa, come la concepivano i greci, come l’arte di organizzazione della vita comune nella polis; in questo contesto la partecipazione attiva dei cittadini alla cura dei beni comuni della società. Questa consapevolezza è probabilmente il vero spartiacque tra i patti di collaborazione generativi ad alto valore aggiunto comunitario e i patti di collaborazione che si danno invece obiettivi puramente manutentivi, quelli che, nei casi peggiori, ricadono sulle spalle degli abitanti attivi, quando la pubblica amministrazione locale non co-gestisca le azioni di interesse generale.
Prendere consapevolezza politica è importante anche per distinguere le attività di interesse generale dai servizi pubblici: durante un’intervista svolta a Goiânia, l’attivista storica dell’”occupazione legalizzata” sopra citata ci ha tenuto a distinguere chiaramente la loro azione culturale dai servizi pubblici di quartiere. Come a dire: qui si fa politica, non assistenzialismo! Questo dimostra che la gestione dei beni comuni non è soltanto una gestione tecnica, ma esprime un vero e proprio atto di organizzazione politica. La politica partecipativa si configura come una forma di autodeterminazione collettiva, a sottolineare l’importanza e l’unicità delle energie civiche che si prendono cura del territorio.
Se il titolo di questo editoriale si ispira al celebre libro di William Morris, “News from Nowhere”, in cui si descrive “un luogo con logiche fuori luogo”, altri sono i libri noti per l’esplorazione dei beni comuni come chiavi di comprensione. Ad esempio “Utopia” di Thomas Moore, che inizia con una critica alla recinzione delle terre comuni in Inghilterra, o “Il Capitale” di Karl Marx, che si conclude con lo stesso argomento. Ma, esplorando il gioco di parole, passando dal “nessun luogo” (Nowhere) al “qui e ora” (Now Here), dobbiamo constatare come le pratiche comuni rimangano utopie e aspirazioni implicite nel contesto brasiliano: forse una pratica quotidiana, ma senza ancora un posto per il richiamo alla sussidiarietà orizzontale nella legislazione nazionale né riferimenti a dispositivi innovativi nelle pratiche di governo locale del territorio.
Camilo Amaral – Professore di progettazione e teoria dell’architettura presso l’Università Federale di Goiás
Daniela Ciaffi – Professoressa di Sociologia urbana presso il Politecnico di Torino e vice-presidente di Labsus
Heitor Pagliaro – Professore di filosofia del diritto presso l’Università Federale di Goias
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Immagine di copertina: Larissa Brenda Cordeiro, ONG ‘Filhas da Terra’, che lotta per difendere una sorgente dall’urbanizzazione illegale (immagine condivisa da Camilo Amaral)